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LA STORIA D'ITALIA IN PELLICOLA Nell'anno del Signore (1969) |
Nell’anno del Signore si svolge nel 1825, durante il pontificato di Leone XII. Numerosi personaggi sono realmente esistiti: i due carbonari Leonida Montanari e Angelo Targhini, che attentano alla vita del principe Filippo Spada e sono condannati a morte; il cardinale Agostino Rivarola, l’eminenza grigia che li manda al patibolo. È realistico il contesto, compresa la feroce persecuzione degli ebrei che è una sorta di trama secondaria essenziale nel film (è ebreo il personaggio di Giuditta, interpretato da Claudia Cardinale). Esiste, ovviamente, Pasquino: è la più famosa delle «statue parlanti» di Roma, la voce del popolo, un «chiacchierone di pietra che non dorme mai». Non è forse mai esistito un solo Pasquino, ma Magni lo inventa e ne fa il cuore del film: è il personaggio di Cornacchia, il ciabattino analfabeta che sa leggere e scrivere («curioso assai ma bbono a sapesse», dicono gli sgherri papalini quando lo scoprono) interpretato da Manfredi con un’adesione meravigliosa, un’ironia dolente che ne fa una figura indimenticabile. La ribellione, nel film, è duplice: i carbonari tramano, Pasquino – il «satirico epigrammatico misterioso» – parla e dà voce al malcontento collettivo.
La struttura ideologica del film è chiarissima. C’è il potere costituito, la Chiesa, il papa. C’è un’opposizione popolare, «morale», che però con tale potere è costretta a convivere (Cornacchia ripara le scarpe al cardinale Rivarola). E c’è una ribellione tutta politica – i carbonari – che però manca di ogni legame con la realtà. «I nobili fanno la rivoluzione come la caccia alla volpe, perché s’annoiano, mica perché je serve», dice Cornacchia. Montanari lo compatisce: «Bisogna capirlo, non è colpa sua. Gli manca l’istruzione»; «E a voi ve manca er popolo», ribatte il ciabattino con una delle poche battute fin troppo didascaliche del film. La posizione di Magni rispetto ai suoi personaggi è al tempo stesso sfumata e chiarissima.
C’è rispetto per i carbonari, per il loro coraggio nell'andare a morire. In almeno due momenti, Montanari parla come un poeta della rivolta: «Chi fa la rivoluzione non se deve portà niente appresso. Amori, affetti, tutte palle de cannone legate al piede. Il rivoluzionario è come un santo: lascia tutto, e invece della croce pija er cortello e s’incammina»; o quando, un attimo prima di essere decapitato, filosofeggia sul fatto che la ghigliottina sia l’unico lascito della Rivoluzione francese accettato dai papi, e chiosa, rivolto al boia: «Mastro Titta, siete l’uomo più moderno de Roma. Il futuro è vostro». Il suo commiato – «bonanotte popolo» – riflette l’amara delusione per una ribellione dal basso che non si è verificata.
Ma, ci dice Magni, il popolo ha ragione. Il popolo è Cornacchia/Pasquino, è Giuditta, sono i ragazzini ebrei che il predicatore inviato a convertirli definisce «brutti zozzoni porci maledetti». Magni sta con Pasquino, Magni «è» Pasquino. Il giudizio sui carbonari è tutto nella strepitosa sequenza in cui Cornacchia raggiunge i congiurati per informarli che Filippo Spada ha fatto la spia. Gli chiedono la parola d’ordine e la sua risposta vale tutto il film: «A ’mbecilli! Ma che se chiede la parola d’ordine ar primo che passa?». E quando gli chiedono se è carbonaro come loro, risponde: «Non cominciamo a confonne. Voi fate la rivoluzione io fo er carzolaro, ognuno se fa gli affari sua». In questa scena e in un’altra lapidaria battuta («Vonno cospira’ e so’ fregnoni») c’è il giudizio di Magni sul ’68: una rivoluzione mancata perché fatta senza l’appoggio del popolo. Forse Magni la pensa come Pasolini, sui sessantottini figli di papà; sicuramente la pensa come il Pci a proposito della priorità della questione operaia rispetto a quella studentesca.
Ma soprattutto Magni sa che il potere – appartenga al papa o alla Dc – è feroce. Come dice il colonnello Nardoni, «il governo mica è un uomo, è una cosa astratta, quando t’ammazza il governo è come se non t’ammazzasse nessuno». Contro questo potere non si va come dei santi, serve la lucidità della politica: «Ecco la rovina nostra, er cataclisma de li popoli: er core. E quando lo buttamo giù er padrone se continuiamo a annà in giro cor core in mano?». È l’ultima lezione di Cornacchia al suo successore Bellachioma, prima di entrare in convento – cioè in clandestinità, «vado a fa’ la serpe in seno». Il personaggio rientra nel mito dal quale proviene (Cohn-Bendit docet), il film si confronta con la realtà: esce il 24 ottobre 1969 ed è un successo incredibile, per la prima volta alcuni cinema di Roma organizzano proiezioni speciali all’una di notte; ma dopo nemmeno due mesi, il 12 dicembre, mentre Nell’anno del Signore è ancora in sala, scoppia la bomba di piazza Fontana, a Milano. A distanza di decenni, anche per quei morti valgono le parole di Nardoni: è come se non li avesse ammazzati nessuno. |
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