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- Pubblicato Martedì, 14 Luglio 2020 17:21
Cinema Estate
Dal 3 al 17 agosto 2020
Tre serate con film muti accompagnati da musica eseguita dal vivo da Marco Dalpane (con l'ensemble Musica nel buio) e da Massimo Giuntoli.
Il grande cinema sotto le stelle in Rocca.
“Quando si va al cinema si alza la testa, quando si guarda la tv la si abbassa e noi di alzare la testa ne abbiamo una voglia matta” (Jean-Luc Godard). Ispirandoci a questa frase del celebre regista vi invitiamo ad “alzare la testa” per vedere un film – atto di resistenza – in questo difficile periodo che stiamo vivendo.
Grazie allo sforzo congiunto con il Comune di Riva del Garda per mettere in sicurezza le proiezioni, riusciamo anche quest’anno a proporvi una piccola rassegna di film muti con l’accompagnamento musicale dal vivo in un luogo simbolo della nostra città.
Per tre lunedì di seguito (3, 10 e 17 agosto) lo schermo della Rocca si illuminerà grazie a tre capolavori del cinema muto con musicisti di altissimo livello che ne accompagneranno la visione.
Ovviamente più che mai quest’anno abbiamo deciso di scegliere commedie e film comici in un momento storico in cui abbiamo bisogno soprattutto di ottimismo.
Inizieremo dunque con il maestro della commedia sofisticata – Ernst Lubitsch – di cui presteremo “Lo scoiattolo”, satira della vita militare all'indomani della Prima guerra mondiale interpretato dalla grandissima Pola Negri. Per questo film il Maestro Marco Dalpane ha scritto una partitura originale all'inizio degli anni 2000 in occasione del restauro della pellicola, che verrà qui riproposta con i musicisti del suo ensemble “Musica nel buio”.
Come consuetudine faremo poi un omaggio al grande comico del muto Buster Keaton. Quest’anno ricorre il centenario della realizzazione dei suoi primi cortometraggi. Il Maestro Dalpane ci proporrà proprio una selezione di quei cortometraggi che hanno lanciato la carriera di uno dei più grandi comici di tutti i tempi.
Per finire, lo straordinario Massimo Giuntoli improvviserà le sue note sulle immagini di “Preferisco l’ascensore” con Harold Lloyd, altro grande comico del cinema muto americano, oggi purtroppo un po’ dimenticato. Nonostante questo, la scena in cui il suo personaggio si aggrappa alle lancette di un orologio, al di sopra di una strada trafficata, è generalmente ritenuta l'immagine più celebre del cinema comico muto.
Vi ricordo che per motivi di sicurezza quest’anno dovrete prenotarvi telefonicamente per le proiezioni all'Ufficio Cultura (tel. 0464 573916) oppure online.
Sperando di vedervi numerosi con la testa alta e il sorriso sul volto…
03 agosto 2020 LO SCOIATTOLO (81' - Commedia, Germania 1921) Regia di Ernst Lubitsch Commento musicale dal vivo ensemble Musica nel buio Musiche originali di Marco Dalpane Marco Zanardi, clarinetto - Alessandro Bonetti, violino - Francesca Aste, synth - Claudio Trotta, batteria - Marco Dalpane, pianoforte e composizione |
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10 agosto 2020 100 ANNI DI BUSTER KEATON: I primi cortometraggi - 1920 - Tiro a segno (The High Sign - 21') - Una settimana (One Week - 21') - I vicini (Neighbors - 18') Commento musicale dal vivo ensemble Musica nel buio Musiche originali di Marco Dalpane Marco Zanardi, sax tenore, clarinetto - Alberto Capelli, chitarra - Claudio Trotta, batteria - Marco Dalpane, pianoforte e composizione |
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17 agosto 2020 PREFERISCO L'ASCENSORE (Safety Last) (73' - Comico, Thriller, USA 1923) Regia di Fred C. Newmeyer e Sam Taylor Commento musicale dal vivo Composto ed eseguito da Massimo Giuntoli |
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Cortile interno della Rocca Piazza Cesare Battisti 2 - Riva del Garda (TN) In caso di maltempo le proiezioni si svolgono all'Auditorium del Conservatorio Ore 21.30 - Ingresso libero. E' richiesta la prenotazione. Telefonicamente: 0464 573916 (orario ufficio) Online a questo link Per l'occasione, entrata libera al Museo Alto Garda dalle 20 alle 21.30, con visita guidata a partire dalle ore 20.00 |
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- Pubblicato Lunedì, 03 Febbraio 2020 00:00
Carissimi amici,
Dedicheremo a lei quattro film, tutti diretti da Joseph von Sternberg, il suo scopritore e Pigmalione che la diresse in sette lungometraggi nella prima metà degli anni Trenta e ne consacrò il mito. Sternberg diresse nel 1930 l'Angelo azzurro che fissò per sempre nell'immaginario universale le caratteristiche del suo personaggio e la consacrò femme fatale per eccellenza.
Ludovico Maillet
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PROGRAMMA 2019 | 2020 ARCO | RIVA DEL GARDA
MARLENE DIETRICH E IL SUO PIGMALIONE |
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RIVA DEL GARDA | lunedì 14 ottobre | L'angelo azzurro (1930) di Josef von Sternberg |
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lunedì 21 ottobre |
Marocco (1930) di Josef von Sternberg | |||
lunedì 28 ottobre | Shanghai Express (1932) di Josef von Sternberg | |||
lunedì 4 novembre | L'imperatrice Caterina (1934) di Josef von Sternberg |
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LA LUNA VISTA DALLA TERRA | ||||
ARCO | lunedì 11 novembre | Uomini veri (1983) di Philip Kaufman | ||
lunedì 18 novembre | Apollo 13 (1995) di Ron Howard | |||
lunedì 25 novembre |
Moon (2009) di Duncan Jones | |||
lunedì 2 dicembre | Space Cowboys (2000) di Clint Eastwood | |||
100 ANNI CON FELLINI | ||||
RIVA DEL GARDA | lunedì 13 gennaio | I vitelloni (1953) di Federico Fellini | ||
lunedì 20 gennaio | Toby Dammit (1968) di Federico Fellini | |||
lunedì 20 gennaio | Block notes di un regista (1969) di Federico Fellini | |||
lunedì 27 gennaio |
Fellini Satyricon (1969) di Federico Fellini | |||
lunedì 3 febbraio | Roma (1972) di Federico Fellini | |
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ROAD MOVIE: IL GENERE AMERICANO PER ECCELLENZA | ||||
ARCO | lunedì 10 febbraio | Easy Rider (1969) di Dennis Hopper | ||
lunedì 17 febbraio |
Punto zero (1971) di Richard C. Sarafian | |
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lunedì 24 febbraio | Paper Moon (1973) di Peter Bogdanovic | SOSPESO | |
lunedì 2 marzo | Thelma e Louise (1991) di Ridley Scott | |
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50 ANNI SENZA JUDY GARLAND | ||||
RIVA DEL GARDA | lunedì 9 marzo | Il mago di Oz (1939) di Victor Fleming | SOSPESO | |
lunedì 16 marzo | Incontriamoci a Saint Louis (1944) di Vincente Minnelli | SOSPESO | |
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lunedì 23 marzo | Ti amavo senza saperlo (1948) di Charles Walters | SOSPESO | ||
lunedì 30 marzo | E' nata una stella (1954) di George Cukor | SOSPESO | ||
Comune di Riva del Garda |
Comune di Arco |
Inizio proiezioni ore 21.00 Riva del Garda - Auditorium del Conservatorio Arco - Palazzo dei Panni Il programma potrà subire variazioni |
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Ingresso con tessera FIC euro 12.00 valida per l'intera stagione euro 5.00 per gli studenti fino a 25 anni Il tesseramento è possibile anche la sera delle proiezioni prima dell'ingresso in sala |
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Per informazioni: | ||
Comune di Riva del Garda Unità Operativa Attività Culturali, Sport e Turismo Telefono 0464 573918 www.comune.rivadelgarda.tn.it |
Comune di Arco Servizio Attività Culturali Telefono 0464 583619 www.comune.arco.tn.it |
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- Pubblicato Domenica, 22 Settembre 2019 07:00
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50 ANNI SENZA JUDY GARLAND Il mago di Oz (1939) |
Dalla soglia della casa sopravvissuta alla violenza del tornado, il Mondo di Oz si squaderna in un tripudio di verdi praticelli, placide ninfee, un ponticello lezioso, dolci montagne sul fondo. La macchina da presa accompagna lo stupore con un solenne movimento. Dorothy ha senz’altro ragione: “Toto, ho l’impressione che non siamo più nel Kansas”. L’abbiamo visto, il Kansas, nella prima inquadratura del Mago di Oz: una strada sterrata, circondata da un niente in bianco e nero, che conduce verso un orizzonte immobile e piattissimo. Anche l’autore delle fortunatissime pagine da cui il film è tratto, L. Frank Baum, in poche righe, ci fa intendere che lì tutto è grigio, pure le gote della zia.
Non ci è dato sapere se Dorothy sia l’unico personaggio variopinto, di certo è la sola a poter ambire a un paesaggio diverso. A questo riguardo, è ancor più chiaro il film: Somewhere over the Rainbow suona come l’invocazione a un mondo che irradi garrulo Technicolor. A Oz i colori sono troppo chiassosi, lussureggianti, acidi per sembrarci veri, così come i matte paintings che fingono immensi paesaggi in lontananza. Ci vuol poco, oggi, a definirli camp. Eppure il trucco funziona e il pubblico può condividere l’estasi di Dorothy, per quanto anche all’epoca non fosse nuovo né ai deliri scenografici del musical né al fulgore del Technicolor.
È impossibile attribuire i meriti del film a un solo mago: Il mago di Oz, anzi, è un “testo senza autore” (Salman Rushdie). L’unica firma che lo marchia a fuoco è quella della MGM. Alla produzione si divisero Mervyn LeRoy e Arthur Freed (sulla carta assistente), quest’ultimo alla sua prima esperienza in una carriera che lo porterà a capo dei maggiori musical della casa. Non è chiaro a chi per primo venne l’idea, per nulla scontata se si considera che, fino ad allora, Oz al cinema non aveva sfavillato (una casa di produzione messa in piedi da Baum per adattare i suoi romanzi chiuse alla svelta, e la versione del 1925 con Oliver Hardy nel costume dell’Uomo di Latta fece poco clamore).
Di certo un buon impulso all’impresa fu assestato dal successone nel 1937 di Biancaneve e i sette nani. Le illustrazioni di William Wallace Denslow per la prima edizione del romanzo, poi, fornirono più che uno spunto iconico.
Furono quattro i registi che parteciparono al progetto: André de Toth (due settimane per niente), George Cukor (tre giorni, abbastanza per consigliare di togliere a Dorothy l’acconciatura bionda), Victor Fleming (quattro mesi, prima di correre sul set di Via col vento) e King Vidor (dieci giorni per le scene del Kansas). Addirittura undici gli sceneggiatori a vario titolo coinvolti. E la gestazione travagliata del film è confermata dai centotrentasei giorni di riprese, tra infelici incidenti di percorso. Ma a dispetto di un così ricco campionario di mani e cervelli, Il mago di Oz è tutt’altro che dispersivo e qua e là raffazzonato: tira invece dritto verso nuovi personaggi, regni e colori, con lo stesso passo saltabeccante dei suoi eroi, per fermarsi ogni tanto a esercitarsi nel canto o nel vaudeville. In fondo, oltre tanto arcobaleno, c’è una morale poco lampante. “Nessun posto è bello come casa mia”, comprende infine Dorothy. Ma tutto il resto sembra smentire apertamente il desiderio di un Kansas monocromo, dal quale è stato bello svegliarsi per prendere in mano il proprio destino di ragazza, senza adulti inadeguati tra i piedi, con la consapevolezza delle proprie virtù.
Il mago di Oz fu troppo costoso per ripianare subito i costi, anche se il pubblico accorse e qualche Oscar marginale arrivò (miglior canzone, suono e premio speciale a Judy Garland). La sua enorme risonanza fu però un fenomeno soprattutto televisivo: a partire dal 1956 il film diventerà un appuntamento domestico fisso e, conseguentemente, una “American institution” (A. Harmetz).
Se il mondo di Oz boccheggia nei vari film che l’hanno in seguito rivisitato, si dimostra fertilissimo quando penetra come suggestione o incubo, più o meno latente, in contesti a prima vista lontani: Zardoz (John Boorman, 1974), Alice non abita più qui (Martin Scorsese, 1974), Cuore selvaggio (David Lynch, 1990), fino al magma del romanzo L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon.
(Andrea Meneghelli, Enciclopedia del Cinema Treccani, 2004)
Le sequenze del Kansas erano imbibite color seppia. Erano girate in bianco e nero; poi la pellicola veniva immersa in un liquido color marrone per attenuare i contrasti del bianco e nero. Il resto del film era a colori. E il colore era ancora un mare inesplorato. Creare il design della Città di Smeraldo era, in un certo senso, più facile che trovare la tinta appropriata per la Strada di mattoni gialli. E almeno era meno noioso. Trovare una tinta che non facesse sembrare verde la Strada di mattoni gialli era compito di Randall Duell, e gli prese all'incirca una settimana. “Il film a colori non era ancora stato perfezionato all'epoca”, dice Duell. “Dovevamo fare un sacco di test ed esperimenti con la pellicola per ottenere i colori da ricreare correttamente. Iniziavamo a riprendere un set una settimana o due prima che fosse utilizzato. Dovevamo fare test cromatici per ogni set non solo per le parti dipinte ma anche per gli sfondi. Una parte della Strada di mattoni gialli era un fondale dipinto. Se non fosse stato dipinto e illuminato correttamente, sarebbe sembrato un fondale dipinto”.
(Aljean Harmetz, The Making of The Wizard of Oz, Alfred A. Knopf, New York 1981)
Uno degli elementi per cui Il mago di Oz viene ricordato è Over the Rainbow, cantata nel film da Judy Garland su musiche di Harold Arlen e parole di A.Y. Harburg, che vinse l'Oscar per la migliore canzone e nel 2001 è stata eletta 'Canzone del secolo' dalla Recording Industry Association of America e dalla National Endowment for the Arts (al secondo posto figurava White Christmas di Irving Berlin). Judy Garland la inserì nel proprio repertorio senza mai abbandonarla, fino alla morte nel 1969. Così scriveva in una lettera ad Arlen: "Over the Rainbow è diventato parte della mia vita. È così simbolica dei sogni e dei desideri di tutti che sono sicura che è per questo che alcune persone hanno le lacrime agli occhi ascoltandola. L'ho cantata migliaia di volte ed è ancora la canzone che ho nel cuore".
La fortuna della canzone giunge quasi ininterrotta fino ai nostri giorni: non si contano le cover, le versioni in varie lingue del mondo, compreso l'esperanto, e la sua presenza in film (da Scandalo a Philadelphia a Insonnia d'amore, ma anche L'abominevole dottor Phibes) e serie televisive. Dal 2004, una versione per ukulele dell'hawaiano Israel Kamakawiwo, in medley con What a Wonderful World, ha nuovamente scalato le classifiche.
La canzone è poi diventata un simbolo delle speranze e della liberazione del mondo gay. Judy Garland, infatti, è una delle icone gay dello spettacolo del XX secolo: leggenda vuole che i moti di Stonewall, tra la comunità omosessuale e la polizia, avvenuti poche giorni dopo il funerale dell'attrice, fossero in qualche modo collegati a quel momento di lutto e agitazione collettiva. Non sorprendono allora i titoli di alcuni volumi recenti, come Over the rainbow: lesbian and gay politics in America since Stonewall (1995), a cura by David Deitcher, Over the rainbow: queer children's and young adult literature (2011), a cura di Michelle Ann Abate e Kenneth Kidd, e Over the rainbow city: towards a new LGBT citizenship in Italy (2015) di Fabio Corbisiero.
Nella letteratura italiana, infine, c'è un illustre omaggio alla canzone. Si tratta di Una questione privata di Beppe Fenoglio, uno dei capolavori della narrativa italiana del Novecento, in cui la canzone ha un ruolo centrale:
“Ma un giorno, erano soli, Fulvia caricò il fonografo con le sue mani e mise Over the Rainbow, 'Avanti, balla con me'. Lui aveva detto, forse aveva gridato di no. 'Devi imparare, assolutamente. Con me, per me. Avanti'. 'Non voglio imparare… con te'. Ma già lo teneva, lo spostava nello spazio libero e spostandolo ballava. 'No!' protestò lui, ma era così sconvolto che non riusciva nemmeno a tentare di divincolarsi. 'E soprattutto non con quella canzone!' Ma lei non lo lasciava e lui dovette badare a non inciampare e rovinarle addosso”.
Una questione privata (pubblicata postuma da Garzanti nel 1963 con altri racconti sotto il titolo Un giorno di fuoco) è una bellissima storia d’amore, una delle più intense della narrativa del Novecento. Come tutte le grandi storie d’amore è di una semplicità disarmante: nel corso della lotta partigiana, Milton, studente universitario di Alba, è perdutamente innamorato di Fulvia, una ricca ragazza sfollata nelle Langhe per sfuggire ai bombardamenti di Torino. Timido, impacciato nei modi, convinto di non essere bello, la pelle spessa e pallidissima, Milton la corteggia scrivendole lettere appassionate, traducendo per lei brani e versi dall’inglese, coinvolgendola in discorsi 'seri'. Lei è attratta da quel ragazzo così diverso dagli altri e ha gioco facile nel simboleggiargli l’altrove: la città, la modernità dei costumi, persino l’America. La loro canzone è Over the Rainbow, interpretata da Judy Garland e tratta dal Mago di Oz (1939). Ed è proprio questa hit – il film di Victor Fleming sarebbe uscito in Italia solo dopo la guerra – a ribaltare i piani, a disgregare lentamente il manto di retorica sulla Resistenza, a esaltare un’avventura esistenziale.
(Aldo Grasso, “Corriere della Sera”, 6 ottobre 2003).
da: http://distribuzione.ilcinemaritrovato.it/per-conoscere-i-film/il-mago-di-oz/over-the-rainbow/
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Scheda |
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TITOLO ORIGINALE | The Wizard of Oz | ||
LINGUA ORIGINALE | Inglese | ||
PRODUZIONE | Stati Uniti d'America | ||
ANNO | 1939 | ||
DURATA | 101' | ||
COLORE | Technicolor | ||
RAPPORTO | 1.37 : 1 | ||
GENERE | Musicale, avventura, commedia, fantastico | ||
REGIA | Victor Fleming George Cukor, Mervyn LeRoy, Norman Taurog, King Vidor (non accreditati) |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
Primo ridoppiaggio (1982)
Secondo ridoppiaggio (1985)
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SOGGETTO | dal romanzo di L. Frank Baum | ||
PRODUTTORE | Mervyn LeRoy Metro-Goldwyn-Mayer |
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SCENEGGIATURA | Noel Langley, Florence Ryerson, Edgar Allan Woolf, (non accreditati) Irving Brecher, William H. Cannon, Herbert Fields, Arthur Freed, Jack Haley, E.Y. Harburg, Samuel Hoffenstein, Bert Lahr, John Lee Mahin, Herman J. Mankiewicz, Jack Mintz, Ogden Nash, Robert Pirosh, George Seaton, Sid Silvers | ||
FOTOGRAFIA | Harold Rosson | ||
MONTAGGIO | Blanche Sewell | ||
EFFETTI SPECIALI | A. Arnold Gillespie | ||
SCENOGRAFIA | Noel Langley | ||
MUSICHE | Harold Arlen, Herbert Stothart | ||
COSTUMI | Adrian | ||
TRUCCO | Jack Dawn | ||
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 23:00
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MARLENE DIETRICH E IL SUO PIGMALIONE L'angelo azzurro (1930) |
Un severissimo professore del ginnasio, Immanuel Rath (Emile Jennings) scopre che i suoi alunni ronzano intorno a Lola-Lola (Marlene Dietrich), cantante e ballerina dai costumi disinvolti che si esibisce nell’equivoco "Angelo azzurro".
Deciso di prenderli in castagna vi si reca ma incoccia nella bellissima donna di cui perdutamente si innamora. La sua caduta sarà veloce e inesorabile.
"L’Angelo azzurro" è considerato il primo film sonoro della gloriosa cinematografia tedesca.
È un fatto che questa aveva già dato il meglio di sé con il muto e il passaggio al sonoro si stava rivelando molto problematico non solo dal punto di vista tecnico ma anche da quello puramente fonetico: la lingua che fu di Holderlin e Goethe sul grande schermo non attecchiva, muoveva gli spettatori al riso, troppo dura e indomesticabile.
Non a caso fu chiamato dagli Stati Uniti Sternberg (il "von" nobiliare è posticcio) che infatti mise in scena non il primo in assoluto ma il primo film sonoro di successo.
Sternberg si era costruito un’ottima reputazione a Hollywood con "Underworld" ("Le notti di Chicago", 1927, comunque muto) ma ancora più decisiva fu la sua origine viennese, con la sua cadenza più dolce dell’aspro tedesco germanico che il raffinato Josef trovò il modo di imbrigliare, come ci mostra una delle più esilaranti sequenze del film, quando il professor Rath schiaffa una matita tra i denti di un alunno per addolcire i suoni palatali.
"L’Angelo azzurro" porta anche alla ribalta un nome fino ad allora, se non sconosciuto, ignorato, quello di Marlene Dietrich non più giovanissima (ha 28 anni) e neanche di primo pelo (ha già girato 17 film) ma che non era riuscita, fino a quel momento, a rimanere impressa nella mente di alcun produttore, regista e forse neanche spettatore.
Plasmata come una cera, Sternberg avvia con questo film un sodalizio artistico-sentimentale che si dipana tra alti e moltissimi bassi lungo otto lungometraggi in cinque anni, dal 1930 al 1935.
Fa una certa impressione ricordare che ne "L’angelo azzurro" il 1935 è indicato esattamente come l’annus horribilis, quello in cui si completa la disfatta del professor Rath, una sorta di alter ego di Sternberg. Non in questo caso però: il regista, ormai ricchissimo, dopo la rottura con Marlene si allontana dai tournage cinematografici (complice una inesorabile sequela di fiaschi commerciali) e si rifugia nella sua casa dorata a collezionare oggetti e ninnoli di arte moderna, assecondando quel suo gusto "decorativo" se non vagamente kitsch con cui i suoi detrattori lo avevano sempre sbeffeggiato, a cominciare da Lubitsch.
"L’angelo azzurro" è quindi un film nevralgico, un crocevia: Weimar sta per cedere a Hitler; il sonoro soppianta definitivamente il muto (nonostante la resistenza quasi eroica di Murnau e Chaplin); l’espressionismo si gioca le sue ultimissime carte: legato indissolubilmente al muto, nel nostro film si arrocca negli esterni, in quei brevi tratti che portano dalla casa di Rath al ginnasio e da questo all’Angelo azzurro, lungo le cui strade il campanile rintocca le ore e le finestre sono sempre sigillate come se fosse in atto una guerra tra il mondo dentro e il mondo fuori e fosse quest’ultimo, accartocciato nelle deformazioni espressioniste, a costringere i protagonisti in quegli anfratti coperti dove sconteranno il loro destino.
Così, come il film si apre su un uccellino in gabbia morto, allo stesso modo Unrat (come lo chiamano i suoi studenti, "spazzatura") non trova mai scampo al magnetismo di Lola e inizia a girare a vuoto tra cantine e boudoir, palcoscenico e palchetti, salvo quando è ormai troppo tardi e finalmente libero corre, corre verso la sua antica cattedra di professore d’inglese sulla quale si accascia.
Lo spazio recitativo è angosciosamente intasato, pieno di cose, carabattole, cordami, trucchi, scale… un caos che repelle ma ancor più affascina l’austero professore totalmente impreparato a un novecento nel quale solo in quel momento si rende conto di essere. Non a caso il pretesto letterario del film è il romanzo di Heirich Mann (fratello del più celebre Thomas) che lo aveva ambientato nella Germania guglielmina, ottocentesca: Rath infatti è uno stereotipo di certo autoritarismo così come ce lo hanno tramandato i grandi romanzieri dell’epoca, a cominciare da Robert Musil ne "I turbamenti del giovane Torless". È un peccato che la psicoanalisi post-freudiana e un non sempre acuto Siegfried Kracauer abbiano sintetizzato la parabola del professore come l’esercizio di un autoritarismo considerato sadismo e/o impotenza sessuale. È un peccato perché il salto temporale azzera in realtà ogni valore alle analisi.
Spazi ingombri, si diceva.
Rath, grassoccio e azzimato, vi si muove con grande fatica e tutta la sua vivacità sta nello sguardo che indirizza i movimenti della cinepresa, uno sguardo inquieto, febbrile e anche bellicoso, prima in cerca dei suoi studenti poi della sua amata infrattata con Mazeppa, un bellimbusto italiano.
I movimenti sono impercettibili perché gli spazi sono ridotti, eppure in quel microcosmo infernale ci sono tutte le risposte che si cercano. Forse la più bella sequenza del film è proprio quella del tradimento di Lola, quando Rath, vestito da pagliaccio ma luciferino come il diavolo del Faust di Murnau (l’attore è lo stesso in effetti) cerca l’amata dall’alto del palcoscenico entro cui si sta esibendo e la trova, appena dietro il sipario, schiacciata a terra dalla foia del bellimbusto e dalla cinepresa che le si addossa in plongée, che la fissa sul pavimento lurido che mette in valore la sua faccia diafana e gli occhi spalancati, terrorizzati e colpevoli su cui l’illuminazione spara i suoi mille watt come in una foto segnaletica.
È l’unica inquadratura in cui Lola è ripresa quasi in primo piano.
In tutte le altre è stata trattata al pari di un qualsiasi oggetto di dècor, come ciascuna delle carabattole che ne intralciavano il trucco e le esibizioni.
È il corpo di Lola che genera desiderio e sensualità, le sue gambe atletiche e generosamente nude, le sue mutandine di pizzo, le sue pose plastiche che la rendono statuaria nella forma e statua nel comportamento, completamente disinteressata al bene e al male, spsicologizzata. Se ne ricorderà Godard ne "Le Mèpris" quando volle plasmare la recitazione di Brigitte Bardot (ma non con gli stessi risultati).
È indubbio che la sensualità che Marlene impone nel nostro film non troverà più il paio in quelli successivi. L’interesse della regia si sposta sul volto, inquadrato come una carta geografica di grande impatto emozionale ("l’immagine-affetto") ma sessualmente neutra o al massimo ambigua come un primo piano di Greta Garbo.
Non è un caso che tuttora Marlene sia una sorta di simbolo dell’androginia (nonché icona-gay) e che in molti sono sicuri che abbia recitato sempre coi pantaloni.
È un fatto che Sternberg fatti salvi il precedente "Underworld" e il successivo "Morocco" ("Marocco", 1930) non ritrovò mai più la prodigiosa sintesi de "L’angelo azzurro" che procede con un montaggio vorticoso ma sempre intelligibile. Partito al piccolo trotto, si preoccupa in primis di definire i personaggi e le loro psicologie, impiegando la prima metà del film per incasellarli tutti. La seconda metà diventa invece una sarabanda vertiginosa che grazie alle informazioni propalate nella prima ci aiuta a operare tutti i salti logici e temporali che ci avviano verso un finale sì fatale e naturale ma quasi a sorpresa.
Di grande aiuto a Sternberg, come scritto, fu la sua esperienza americana col sonoro, una banda che usa con molta accortezza e che usa come raccordo (i rintocchi del campanile), come simbolo in quelle rime continue di cingettii, coccodè e chicchirichì che sono il vero fil rouge della storia e infine come leit-motiv, nella canzone "Ich bin die fesche Lola" cantata da Marlene con la sua caratteristica voce bassa, in quella celeberrima sequenza (vedi fotografia 1) in cui si siede su di un barile e mette in mostra le gambe.
recensione di Pietro S. Calò
da: Ondacinema.it
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Scheda |
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TITOLO ORIGINALE | Der blaue Engel | ||
PRODUZIONE | Germania | ||
ANNO | 1930 | ||
DURATA | 99' | ||
COLORE | b/n | ||
RAPPORTO | 1,20:1 | ||
GENERE | Drammatico, musicale | ||
REGIA | Josef von Sternber |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
Doppiaggio originale (1931):
Ridoppiaggio (1950):
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SOGGETTO | Heinrich Mann (romanzo) |
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CASA DI PRODUZIONE | UFA |
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SCENEGGIATURA | Carl Zuckmayer, Karl Vollmöller, Robert Liebman | ||
FOTOGRAFIA | Günther Rittau, Hans Schneeberger | ||
MONTAGGIO | Sam Winston Walter Klee(per la versione inglese) | ||
MUSICHE | Frederick Hollaender, Wolfgang Amadeus Mozart, Renzo Rossellini (musiche per l'edizione italiana) | ||
SCENOGRAFIA | Otto Hunte Emil Hasler (assistente) |
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COSTUMI | Tihamer Varady | ||