LunedìCinemaCineforum 2018 -2019
    

LA STORIA D'ITALIA IN PELLICOLA
La grande guerra  (1959)

 

«Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive preesistenti alla sua nascita... la falsa notizia è lo specchio nel quale ‘la coscienza collettiva’ contempla le proprie fattezze». Così Marc Bloch nelle celebri Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra, pubblicate nel 1921 e recentemente rieditate assieme a un altro fondamentale testo sulla prima guerra mondiale di Joseph Bédier (Bédier-Bloch, pp. 108-109).

È un ottimo vademecum per entrare in La grande guerra (Mario Monicelli, 1959). Il film utilizza e smonta, infatti, due false notizie. La prima – che potremmo definire una macro-falsa notizia – è la «rappresentazione collettiva» della prima guerra mondiale come un conflitto eroico, patriottico, fondante dell’identità nazionale. Rappresentazione che, dopo il film, non è più possibile né credibile. La seconda – che definiremo una micro-falsa notizia – è la conclamata La grande guerra (1959) di Mario Monicelli  vigliaccheria di Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e Giovanni Busacca (Vittorio Gassman), i due fanti protagonisti del film. È talmente scontato che i due siano dei lavativi, che quando i commilitoni non li vedono durante l’offensiva che dà la vittoria all'esercito italiano ipotizzano subito che si siano imboscati come al solito. Nessuno sa, né saprà mai, che Jacovacci e Busacca sono morti da eroi, fucilati dagli austriaci per non aver rivelato l’ubicazione di un ponte di barche decisivo per le sorti della battaglia.

La prima guerra mondiale è stato il primo conflitto cinematografico della storia. Non solo è stata documentata dal cinema (inventato vent'anni prima) durante il suo svolgimento ed è stata poi raccontata da centinaia di film, ma ha anche visto la presenza del cinema come arma strategica: le macchine da presa montate su mongolfiere e dirigibili giocarono un importante ruolo di spionaggio e di intelligence, come ampiamente raccontato da Paul Virilio nel suo saggio Guerra e cinema. (...)

La grande guerra è, in questa storia, un momento di svolta. È uno dei film più importanti del cinema italiano perché ha cambiato non tanto la conoscenza e la memoria del conflitto, quanto il giudizio, il comune sentire su di esso. Per il pubblico e anche per gli storici: dopo la vittoria del Leone d’oro alla Mostra di Venezia del 1959, e una volta accettata la sua statura di capolavoro, anche gli storici si sono sentiti più liberi di smitizzare l’epica della «grande guerra», di svelare la verità che si nascondeva dietro le leggende (e che i superstiti, in privato, già raccontavano).

L’importanza del film è indirettamente dimostrata dalle enormi difficoltà che il regista Mario Monicelli e il produttore Dino De Laurentiis devono superare per realizzarlo. Il soggetto è dello sceneggiatore Luciano Vincenzoni e si ispira al racconto di Guy de Maupassant Due amici (1883), che si svolge durante la guerra franco-prussiana del 1870-1871. Vincenzoni è colpito dall’idea dei due amici che vanno a pescare, passano inconsapevolmente le linee, vengono catturati dai tedeschi e si rifiutano di fare le spie, preferendo la morte al tradimento. Trasformare due borghesi francesi in due fanti italiani proletari dà all'idea una forza maggiore. «Ci fu una grande battaglia per imporla – ricorda Age, un altro degli sceneggiatori –.
Primo perché Gassman e Sordi, che nel film erano due antieroi, alla fine venivano fucilati lo stesso, e questo andava contro tutte le regole del film comico di allora. Secondo, perché si parlava per la prima volta in modo diretto, in un film italiano, di Caporetto. Ci furono molte proteste di ambienti reazionari, di ambienti dell’esercito» (Faldini-Fofi 2, p. 414). Lo storico Marco Mondini ricorda lo sdegno preventivo di Paolo Monelli, che su «La Stampa» del 10 gennaio 1959 «accusò la produzione di progettare un film anti-italiano animato dai più retrivi antimiti nazionali» (Mondini, p. 263).

  Storia D'italia In 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)

da: Storia d'Italia in 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)

 
 
 

 

   Scheda 

      La grande guerra (1959) di Mario Monicelli   
     
PRODUZIONE Italia, Francia  
ANNO 1959  
DURATA 135'   
COLORE B/N  
RAPPORTO 2,35:1  
GENERE Commedia, drammatico, guerra  
REGIA Mario Monicelli    

INTERPRETI E PERSONAGGI

  • Alberto Sordi: Oreste Jacovacci
  • Vittorio Gassman: Giovanni Busacca
  • Silvana Mangano: Costantina
  • Romolo Valli: tenente Gallina
  • Folco Lulli: Giuseppe Bordin
  • Bernard Blier: capitano Castelli
  • Vittorio Sanipoli: maggiore Segre
  • Nicola Arigliano: Giardino
  • Geronimo Meynier: portaordini
  • Mario Valdemarin: sottotenente Loquenzi
  • Elsa Vazzoler: moglie di Bordin
  • Tiberio Murgia: Rosario Nicotra
  • Livio Lorenzon: sergente Battiferri
  • Ferruccio Amendola: De Concini
  • Gianni Baghino: un soldato
  • Carlo D'Angelo: capitano Ferri
  • Achille Compagnoni: cappellano
  • Luigi Fainelli: Giacomazzi
  • Marcello Giorda: il generale
  • Tiberio Mitri: Mandich
  • Gérard Herter: capitano austriaco
  • Guido Celano: maggiore italiano
  • Leandro Punturi: bambino
  • Mario Feliciani
  • Mario Mazza
  • Mario Colli
  • Mario Frera
  • Gian Luigi Polidoro
  • Edda Ferronao
 

DOPPIATORI ORIGINALI
  • Nino Dal Fabbro: capitano Castelli
  • Mario Colli: cappellano
  • Turi Ferro : Rosario Nicotra
  • Riccardo Cucciolla: Giardino
 
SOGGETTO Mario MonicelliAge & ScarpelliLuciano Vincenzoni  
CASA DI PRODUZIONE Dino De Laurentiis  
SCENEGGIATURA Mario MonicelliAge & ScarpelliLuciano Vincenzoni  
FOTOGRAFIA Leonida BarboniRoberto GerardiGiuseppe Rotunno, Giuseppe Serrandi  
MONTAGGIO Adriana Novelli  
MUSICHE Nino Rota  
SCENOGRAFIA Mario Garbuglia  
COSTUMI Danilo Donati  
       


 

 
 
 

 

 LunedìCinemaCineforum 2018 -2019
    

LA STORIA D'ITALIA IN PELLICOLA
Amarcord  (1973)


Il copione non ha una sbavatura, una battuta fuori tono. Si ride e si piange, spesso contemporaneamente. L’ironia è alta, feroce ma anche partecipe, e qui si compie il secondo miracolo: fin dal titolo, che in romagnolo significa «mi ricordo»,
Amarcord è nostalgico senza paura di esserlo. La nostalgia non è necessariamente un sentimento negativo. Al cinema è assai rischiosa, ma in Amarcord il rischio viene corso e superato. Ovviamente non è nostalgia del fascismo, bensì dell’infanzia e dell’adolescenza. Per chi è nato negli anni Venti, come Fellini, gli anni più teneri e belli sono coincisi con il ventennio e il sentimento per quel passato non può che essere ambivalente: giudizio severo sull’Italia di allora (e non è un caso che uno dei numerosi «matti» che popolano il Borgo sia soprannominato proprio così: Giudizio), struggente calore per ciò che si era e non si è più, per le sciocchezze combinate con gli amici, gli scherzi goliardici, i genitori scomparsi, i primi desideri nei confronti di donne irraggiungibili. (...)

Amarcord (1973) di Federico FelliniIl casting è una serie di colpi di genio. Abbiamo citato Zanin e Ingrassia (anch’egli, siciliano, doppiato: dal bolognese Enzo Robutti), bisognerà citarne tanti altri. I genitori di Titta sono Armando Brancia e Pupella Maggio, entrambi napoletani. Li doppiano Corrado Gaipa (siciliano) e Ave Ninchi (marchigiana). Lo zio Lallo, detto «il Patacca», è il domatore e impresario circense Nando Orfei: lo doppia Romolo Valli, emiliano. La leggendaria tabaccaia è la bolognese Maria Antonietta Beluzzi, con la voce della siculo-romana Solvejg D’Assunta che è la doppiatrice suprema di Fellini, quella che sa fare tutti gli accenti e gli chiude, in fase di doppiaggio, tutte le «cosine» rimaste senza voce (è un ruolo che, in versione maschile, hanno ricoperto negli anni Elio Pandolfi, Carlo Croccolo, Alighiero Noschese e Oreste Lionello; in La dolce vita, ad esempio, Pandolfi doppia tutti i giornalisti della conferenza stampa della Ekberg; in Amarcord i personaggi minori doppiati da Lionello sono almeno sette o otto). (...)

Come film di ricordi Amarcord è straordinariamente oggettivo. Per un regista spesso accusato di essere ombelicale, è sorprendente quanto il film racconti la collettività. Le scene familiari si allargano alla scuola, al tempo libero, alla chiesa, alla casa del fascio, allo struscio serale sul corso. Pur avendo un titolo in prima persona, Amarcord mette in scena una memoria collettiva. Scrive Kezich: «Se un sociologo dovesse fare uno studio dell’Italia fra le due guerre disponendo solo di Amarcord che cosa troverebbe? Famiglie tribali, pessime scuole, repressione sessuale, manicomi-prigione, fascismo. Non si può certo dire che il regista sia stato tenero verso la società vivacchiante sotto il tallone della dittatura... Ed è curioso che un giudizio tanto implacabile sui danni prodotti dal fascismo sulla società italiana venga da un autore dichiaratamente impolitico» (Kezich 1, p. 302). (...)

Quando si svolge Amarcord? Domanda non oziosa. L’arco narrativo copre un anno, da una primavera all’altra. Il passaggio del Rex (che percorse l’Adriatico solo nel suo ultimo viaggio verso Trieste, a guerra già in corso) farebbe pensare al 1932, anno del varo del mitico transatlantico. Ma il Rex non passò mai davanti a Rimini e quella bellissima scena, girata nel backlot di Cinecittà, è un sogno ad occhi aperti, nonché la messinscena dell’orgoglio del regime. Il «nevone» rimanda invece al 1929, quando un’ondata di freddo sommerse tutta l’Italia del Nord e la riviera romagnola in particolare. Il cinema Fulgor espone i cartelloni di un film inventato, La valle dell’amore con Gary Cooper: ma quando Titta vi insegue la Gradisca sullo schermo compare il divo in Beau Geste, il che ci porterebbe addirittura al 1939.
È immaginario anche il cartellone di Danzando con te con Fred Astaire e Ginger Rogers, però l’allusione è più chiara: Voglio danzar con te, musical con la celebre coppia, è del 1937. La VII edizione della Mille Miglia (annunciata da uno striscione) si svolge nel 1933. Amarcord è un collage degli anni Trenta, il decennio in cui Fellini e l’Italia fascista condividono lo stesso tempo della vita, l’adolescenza. «Non è l’opinione dell’autore a formare il nostro giudizio sugli anni Trenta, ma la semplice esposizione dei fatti. Quello che Amarcord rende a meraviglia, con una nota appena accennata di pietà, è la stupidità di un mondo che all’ombra funesta dei gagliardetti stava consumando gli ultimi fervori ottocenteschi; ed era pronto a emozionarsi, come si vede in una della scene più memorabili, di fronte alla maestosità del transatlantico Rex, simbolo pregnante che starebbe bene come illustrazione a un libro di Jung» (Kezich 1, p. 304).

  Storia D'italia In 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)


da: 
Storia d'Italia in 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)

 
 
 

 

   Scheda 

      Amarcord (1973) di Federico Fellini   
     
PRODUZIONE Italia, Francia  
ANNO 1973  
DURATA 123'   
COLORE Colore  
RAPPORTO 1,85:1  
GENERE Commedia, drammatico  
REGIA Federico Fellini    

INTERPRETI E PERSONAGGI

  • Pupella Maggio: Miranda Biondi
  • Armando Brancia: Aurelio Biondi
  • Magali Noël: Ninola detta "Gradisca"
  • Ciccio Ingrassia: Teo
  • Nando Orfei: Lallo
  • Luigi Rossi: Avvocato
  • Bruno Zanin: Titta Biondi
  • Gianfilippo Carcano: Don Balosa
  • Josiane Tanzilli: Volpina
  • Maria Antonietta Beluzzi: Tabaccaia
  • Giuseppe Ianigro: Nonno
  • Ferruccio Brembilla: Capo fascista
 

DOPPIATORI ORIGINALI
  • Ave Ninchi: Miranda Biondi
  • Corrado Gaipa: Aurelio Biondi
  • Adriana Asti: Ninola detta "Gradisca"
  • Enzo Robutti: Teo
  • Paolo Carlini: Lallo
  • Piero Tiberi: Titta Biondi
  • Solvejg D'Assunta: Tabaccaia
  • Fausto Tommei: Nonno
 
SOGGETTO Federico Fellini, Tonino Guerra  
CASA DI PRODUZIONE F.C. Produzioni, P.E.C.F.  
SCENEGGIATURA Federico Fellini, Tonino Guerra  
FOTOGRAFIA Giuseppe Rotunno  
MONTAGGIO Ruggero Mastroianni  
MUSICHE Nino Rota  
SCENOGRAFIA Danilo Donati  
COSTUMI Danilo Donati  
TRUCCO Rino Carbone  
       


 

 
 
 

 

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LA STORIA D'ITALIA IN PELLICOLA
Tutti a casa  (1960)


Tutti a casa
entra in produzione nei primi mesi del 1960 per volontà di Dino De Laurentiis, lo stesso produttore di La grande guerra. Il successo commerciale del film di Monicelli cambia radicalmente il mercato del cinema italiano. Viene sdoganata l’idea che divi della commedia come Sordi e Gassman possano morire sullo schermo senza far fuggire il pubblico dalle sale. Entra nel comune sentire, soprattutto, il concetto che la commedia all’italiana può affrontare temi «alti» e drammatici senza snaturarsi; può perseguire la risata e il divertimento mescolandoli con la paura, la tragedia, la morte; può raccontare storie ambientate nel cuore della Storia. Rossellini e Fabrizi l’avevano già detto chiaramente con la famosa «padellata» di Roma città aperta, ma non tutti se n’erano accorti. Con Tutti a casa dubbi e ambiguità vengono spazzati via, e chi vorrà normalizzare la commedia da allora in poi lo farà a proprio rischio e pericolo, mentirà sapendo di mentire.

Tutti a casa (1960) di Luigi ComenciniLa scelta del soggetto è perfetta. L’8 settembre è uno snodo storico in cui tragedia e farsa si fondono magnificamente, e nessuno meglio di Alberto Sordi può incarnare un italiano travolto dagli eventi, capace di essere vigliacco ed eroe nel breve volgere di un batter d’occhi. In La grande guerra la sintesi tra coraggio e cialtroneria si realizza nell’ultima sequenza, in Tutti a casa percorre tutto il film. Tutto ciò resterebbe sulla carta se ogni momento del film non fosse straordinariamente autentico. L’autenticità nasce dall’esperienza diretta di uno degli sceneggiatori: Agenore Incrocci in arte Age, «metà» della magnifica coppia Age & Scarpelli, ha vissuto durante la guerra esperienze molto simili a quelle raccontate nel film. (...)

Tutti a casa non è solo la storia dei militari sbandati dopo l’8 settembre. Tutti a casa è la storia di alcuni militari che imparano a diventare uomini, di alcuni sudditi che imparano la democrazia. Ci sono due scene, nel film, che raccontano questo processo in modo quasi brechtiano. Una è la cena a casa del sergente Fornaciari: la polenta sparsa sul tavolo, come si usava una volta, la poca carne nel mezzo, e ciascuno deve mangiare la sua fetta prima di arrivare al companatico; l’americano bara, e Sordi lo sgrida dicendo «fair play». L’altra è la divertentissima scena in treno in cui Innocenzi, Fornaciari e il soldato Codegato mettono ai voti se mangiarsi o no il contenuto della valigia di Ceccarelli, piena di cibo. Gli altri due votano per il sì, Innocenzi vota contro ma si rimette alla maggioranza e partecipa al banchetto. In queste scene la commedia non è una sovrastruttura che si sovrappone al dramma storico, la commedia «è» il dramma, porta nel dramma storico l’imperfezione e l’inadeguatezza che rende umani gli uomini.

E' implicito che, nel finale, Innocenzi diventi un partigiano, uno dei tanti passati con coraggio dal regio esercito alla lotta clandestina. Ma è altrettanto assodato che molti fascisti – a cominciare dal papà di Innocenzi, interpretato dal grande Eduardo De Filippo – non capiscano e non vogliano capire, credano ancora che i tedeschi «hanno l’arma segreta» e che sia doveroso seguire Mussolini al Nord. Proprio come vorrebbe l’amico del padre, il maggiore Nocella, coraggiosamente interpretato da un attore – Mino Doro – che era un divo del cinema fascista e aveva prestato volto e fisico virili a Vecchia guardia, il film di propaganda di Blasetti. Di fronte alla figura paterna, tenera e testarda, amata e incomprensibile (Sordi lo saluta chiamandolo «capoccione») il tenente trova una sola soluzione: la fuga. La trasformazione in cittadino è ancora imparziale, imperfetta. Anche la votazione sul treno – forzandone appena lievemente il portato simbolico – è la nascita di una democrazia basata sull’opportunismo: io voto contro, ma se si tratta di riempirsi lo stomaco sto con la maggioranza.

     Storia D'italia In 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)


da: 
Storia d'Italia in 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)

 
 

 

   Scheda 

      Tutti a casa (1960) di Luigi Comencini   
     
PRODUZIONE Italia, Francia  
ANNO 1960  
DURATA 117'   
COLORE B/N  
RAPPORTO 1,85:1  
GENERE Drammatico, guerra  
REGIA Luigi Comencini    

INTERPRETI E PERSONAGGI


  • Alberto Sordi: Sottotenente Alberto Innocenzi
  • Eduardo De Filippo: Signor Innocenzi, padre di Alberto
  • Serge Reggiani: Geniere Assunto Ceccarelli
  • Martin Balsam: Sergente Quintino Fornaciari
  • Nino Castelnuovo: Codegato
  • Carla Gravina: Silvia Modena
  • Claudio Gora: Colonnello
  • Mino Doro: Maggiore Nocella
  • Mario Feliciani: Capitano Passerini
  • Alex Nicol: prigioniero americano
  • Guido Celano: fascista che arresta Fornaciari
  • Jole Mauro: Teresa Fornaciari, moglie di Quintino
  • Didi Perego: Caterina Brisigoni, trafficante di farina
  • Mac Ronay: Evaristo Brisigoni
  • Vincenzo Musolino: primo fascista
  • Mario Frera: secondo fascista
  • Ugo D'Alessio: parroco a Napoli
  • Silla Bettini: tenente Di Fazio
  • Luisina Conti
  • Armando Zanon
 

DOPPIATORI ORIGINALI
  • Aldo Giuffré: Geniere Assunto Ceccarelli
  • Riccardo Cucciolla: Capitano Passerini
  • Corrado Gaipa: Sergente Quintino Fornaciari
  • Giacomo Furia: secondo fascista
 
SOGGETTO Age & Scarpelli  
CASA DI PRODUZIONE Dino De Laurentiis cinematografica, Orsay Film  
SCENEGGIATURA Age & ScarpelliLuigi ComenciniMarcello Fondato  
FOTOGRAFIA Carlo Carlini  
MONTAGGIO Nino Baragli  
MUSICHE Francesco Lavagnino  
SCENOGRAFIA Carlo Egidi  
COSTUMI Ugo Pericoli  
TRUCCO Giuliano Laurenti  
       


 

 

 

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LA STORIA D'ITALIA IN PELLICOLA
Se sei vivo spara  (1967)


Se sei vivo spara è un film delirante e non propriamente equilibrato, ma ha un pregio: è un’opera «pop» figlia degli anni Sessanta e ha influenzato non solo Tarantino, ma anche film più intrisi di magia e surrealismo come El topo (Alejandro Jodorowsky, 1970). La cupidigia porta alla morte, e questo è un tema «sessantottino»: il cattivo muore sfigurato dall'oro che ha nascosto, fuso nell'incendio della sua casa. Ma la vera forza del film sta nel rileggere la Resistenza come un sogno fanciullesco, in cui la violenza diventa un gioco sadico e liberatorio. La lotta contro il fascismo diventa un mondo parallelo e lisergico, dove avvengono cose inaccettabili nella vita reale.
Se sei vivo spara (1967) di Giulio QuestiQuesto fa di Se sei vivo spara la rappresentazione plastica di un’idea più profonda: la Resistenza come parentesi, come esperienza estrema di una generazione che non si è poi riverberata nel dopoguerra. Il sogno finisce, torna la realtà, molti fascisti diventano «ex» e rimangono al loro posto. Questa lettura è ovviamente parziale e riduttiva da un punto di vista storiografico: è sempre giusto ricordare che la Resistenza «ebbe il suo lungo antefatto nella lotta degli antifascisti durante il ventennio»; che ebbe «una base di massa che, se non fu maggioritaria, fu certo di gran lunga più numerosa di quella che un secolo prima aveva voluto o saputo raccogliere il Risorgimento»; e che essa «resta un elemento essenziale che ha reso possibile la fondazione della Repubblica democratica in Italia» (Candeloro, pp. 344-345). Insomma, il giudizio storico deve ricordare che la Resistenza inizia prima dell’8 settembre 1943 e prosegue, almeno come patrimonio politico e ideale, dopo il 25 aprile 1945.

Ma la lettura di cui sopra va tenuta in conto – visto che parliamo di cinema, quindi di arte – da un punto di vista emotivo, soprattutto per coloro che vi hanno attivamente partecipato. Possiamo testimoniare che Questi aveva, per la sua esperienza di partigiano, un atteggiamento in parte mitico, in parte reticente. La raccontava come l’avesse vissuta qualcun altro. Era il periodo in cui si era sentito più vivo, ma era anche lontano, in un «altrove» psicologico dove raramente consentiva ad altri di entrare. Solo a novant'anni ha trovato la voglia di spiegare: «Venti e anche cinquanta anni dopo molte cose affiorano all'improvviso, a volte un solo dettaglio fotografico che esplode... angoscia, paura, orrore, mai più la guerra, mai più avere vent'anni!... Sì, si maledicono i propri vent'anni!... Quando siamo tornati, ci siamo accorti che la realtà era un’altra: lo Stato c’era ancora e con lo Stato dovevi fare i conti. All'inizio hanno messo i prefetti antifascisti, poi nel giro di un anno la burocrazia statale ha ripreso a funzionare e sono tornati i prefetti di carriera... Prima il nostro sogno di libertà e di felicità aveva cancellato lo Stato... Ci aspettavamo una società felice e libera, che non si è mai realizzata» 

L’aiuto regista è un ventunenne Gianni Amelio. Il film esce a febbraio del ’67 vietato ai minori di 18 anni e viene sequestrato l’8 marzo: uno spettatore si è sentito male per la scena in cui un «dottore» estrae delle pallottole da un corpo con le dita. Amelio: «Il corpo del morto era fatto con carne di porco, così che le dita degli attori vi potessero scavare dentro con più facilità. E proprio io mi dovevo occupare di quella scena... Capirete che in un villaggetto della Spagna, sotto un sole cocente, quella carne frollava in un attimo, un vero schifo» (Giusti, p. 468). Riesce dopo alcuni giorni, con 5 minuti di tagli: le suddette pallottole nella carne di suino e uno scotennamento a vista. Poi scompare. Rispunta nel 1975 intitolato Oro Hondo, con ulteriori tagli ma con le due scene censurate reintegrate. Il cambio del titolo è per aggirare la censura, come fosse un film nuovo. Rinasce, decenni dopo, in dvd e ridiventa un culto. Quentin Tarantino, Alex Cox e Joe Dante lo adorano. E con loro tutti i registi «pulp» che hanno spostato il confine della rappresentazione della violenza sullo schermo.

     Storia D'italia In 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)


da: 
Storia d'Italia in 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)

 
 

 

   Scheda 

      Se sei vivo spara (1967) di Giulio Questi   
     
PRODUZIONE Italia, Spagna  
ANNO 1967  
DURATA 117' (director's cut)  
COLORE B/N  
RAPPORTO 2,35:1  
GENERE Western  
REGIA Giulio Questi    

INTERPRETI E PERSONAGGI



  • Tomas Milian: Hermano
  • Marilù Tolo: Flory
  • Roberto Camardiel: Sorrow
  • Piero Lulli: Oaks
  • Milo Quesada: Tembler
  • Francisco Sanz: Hagerman
  • Ray Lovelock (accreditato come Raymond Lovelock) : Evan
  • Patrizia Valturri: Elizabeth
  • Sancho Gracia: Willy
  • Miguel Serrano
  • Angel Silva
  • Mirella Pamphili
 

DOPPIATORI ORIGINALI

  • Massimo Turci: Hermano
  • Maria Pia Di Meo: Flory
  • Mario Pisu: Sorrow
  • Sergio Graziani: Oaks
  • Pino Locchi: Tembler
  • Bruno Persa: Hagerman
  • Fiorella Betti: Elizabeth
  • Romano Malaspina: Evan
 
SOGGETTO Giulio QuestiFranco Arcalli, da un'idea di Maria Del Carmen  
CASA DI PRODUZIONE Cia CinematograficaHispamer Film  
SCENEGGIATURA Franco ArcalliGiulio Questi, (collaborazione e dialoghi di Benedetto Benedetti)  
FOTOGRAFIA Franco Delli Colli  
MONTAGGIO Franco Arcalli  
MUSICHE Ivan Vandor  
SCENOGRAFIA José Luis GaliciaJaime Perez Cubero  
TRUCCO Adela Del PinoEnzo Baraldi  
       


 

 

 

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LA STORIA D'ITALIA IN PELLICOLA
C'eravamo tanto amati  (1974)


Due film hanno raccontato il dopoguerra coprendo un arco narrativo di decenni e tentando un bilancio della ricostruzione post-bellica. Sono due commedie: Una vita difficile (Dino Risi, 1961) e C’eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974). Partono dalla Resistenza, scegliendo come protagonisti dei partigiani, e arrivano al proprio presente: il boom degli incipienti anni Sessanta, le tensioni degli anni Settanta. Alla faccia di chi ha sempre considerato la commedia all’italiana un cinema escapista, d’evasione, sono film nei quali la politica è in primo piano. Di nuovo: alla faccia di chi ha sempre considerato la commedia all’italiana un cinema semplice e semplicistico, sono film dalla struttura narrativa complessa e fortemente metacinematografici. Entrambi riflettono sulla natura del mezzo espressivo: in modo ironico quello di Risi, scavando nelle pieghe del linguaggio quello di Scola. (...)
C'eravamo tanto amati (1974) di Ettore ScolaC’eravamo tanto amati è un film corale, più complesso. Gli ex partigiani sono tre: Antonio (Nino Manfredi), Nicola (Stefano Satta Flores) e Gianni (Vittorio Gassman). Il primo rimane un compagno duro e puro, uno di quei comunisti ortodossi che hanno costituito la spina dorsale del Pci dal ’45 alla Bolognina; il secondo è nato outsider e attaccabrighe, incarna la coscienza critica ma anche autodistruttiva di tutto ciò che si muove a sinistra del Pci; il terzo è il personaggio più problematico e in ultima analisi più interessante, un idealista che si vende al capitale, sposa la figlia di un palazzinaro fascista e annega i sogni di gioventù nella ricchezza.
Se c’è un difetto che si può rimproverare a C’eravamo tanto amati – film per molti versi magnifico, con una narrazione fluviale e personaggi ben scritti e benissimo interpretati – è il suo essere un teorema, in cui i tre personaggi simboleggiano tre anime della sinistra italiana e Luciana (Stefania Sandrelli), la donna di cui tutti e tre si innamorano in momenti e modi diversi, è l’Italia. Se però, nel teorema, Gianni è il Psi pronto a compromettersi con il potere nell’Italia del centro-sinistra, va dato atto a Scola e ai suoi sceneggiatori Age & Scarpelli di aver azzeccato una profezia. Anche se Gianni si arricchisce non «con» la politica, ma tradendo la politica: nel 1974 il Psi di Craxi e De Michelis non era ancora immaginabile. (...)

Sono tanti i tasselli storici, in 
C’eravamo tanto amati. Dall’iniziale montaggio di cinegiornali (la fine della guerra, il referendum, De Gasperi che prende i soldi da Truman e caccia Togliatti dal governo...) alle adunate nei bar per vedere Lascia o raddoppia? in televisione, fino a una delle scene più belle del film, la ricostruzione del set di La dolce vita a Fontana di Trevi dove Antonio e Luciana si ritrovano dopo molto tempo, e dove Federico Fellini e Marcello Mastroianni fanno i se stessi di quindici anni prima (in Una vita difficile, invece, ci sono apparizioni di Alessandro Blasetti, Vittorio Gassman e Silvana Mangano). Nella scena c’è un momento meraviglioso, quando un assistente va da Fellini e gli chiede di ricevere un ufficiale del Sifar, «ce po’ fa’ comodo per i permessi». Il tizio avanza, stringe la mano al regista e gli dice «sono onorato di conoscere il grande Rossellini». Fellini scoppia a ridere e la sua reazione è genuina, nessuno l’aveva avvisato che l’ufficiale avrebbe pronunciato quella battuta. 

Lo scorrere della storia si fa cinema, racconto orale, musica: «Se tentassi di immaginare che cosa avremmo fatto di tutto il materiale scritto nel caso in cui non fosse stato inventato il cinematografo, non mi sentirei di rispondere: nulla. Ne avremmo fatto teatro, racconti, canzoni o favole da raccontare a veglia» (Furio Scarpelli in Faldini-Fofi 3, p. 203). Alla fine cosa rimane, oltre a un gigantesco «boh»? Lasciamolo dire a Scola: «C’è l’idea che in Italia la collettività sia migliore dei suoi governanti e di quelli che parlano a suo nome... non mi pare un film pessimista, se non nel senso gramsciano del ‘pessimismo della ragione’» (Faldini-Fofi 3, p. 204). 

     Storia D'italia In 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)


da: 
Storia D'italia In 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)

 
 

 

   Scheda 

      C'eravamo tanto amati (1974) di Ettore Scola   
     
PRODUZIONE Italia  
ANNO 1974  
DURATA 120'   
COLORE B/N e Colore  
RAPPORTO 1,85:1  
GENERE Commedia  
REGIA Ettore Scola    

INTERPRETI E PERSONAGGI


  • Nino Manfredi: Antonio
  • Vittorio Gassman: Gianni Perego
  • Stefania Sandrelli: Luciana Zanon
  • Stefano Satta Flores: Nicola Palumbo
  • Giovanna Ralli: Elide Catenacci, moglie di Gianni
  • Aldo Fabrizi: Romolo Catenacci
  • Marcella Michelangeli: Gabriella, moglie di Nicola
  • Elena Fabrizi: moglie di Romolo Catenacci
  • Fiammetta Baralla: Maria, figlia minore di Catenacci
  • Luciano Bonanni: Torquato, un malato
  • Mike Bongiorno: se stesso
  • Dino Curcio: farmacista di Nocera Inferiore
  • Ugo Gregoretti: presentatore
  • Isa Barzizza: la proprietaria della pensione
  • Marcello Mastroianni: se stesso
  • Federico Fellini: se stesso
  • Vittorio De Sica: se stesso
  • Nello Meniconi: se stesso
  • Carla Mancini: Lena
  • Livia Cerini: Rosa, ragazza al ristorante
  • Armando Curcio: Palumbo padre
  • Lorenzo Piani: Enrico
 

DOPPIATORI ORIGINALI

  • Fiorenzo Fiorentini: il re della mezza porzione
 
SOGGETTO Age & ScarpelliEttore Scola  
CASA DI PRODUZIONE Deantir  
SCENEGGIATURA Age & ScarpelliEttore Scola  
FOTOGRAFIA Claudio Cirillo  
MONTAGGIO Raimondo Crociani  
MUSICHE Armando Trovajoli  
SCENOGRAFIA Luciano Ricceri  
COSTUMI Luciano Ricceri  
TRUCCO Goffredo Rocchetti, Giulio Natalucci  
       


 

 

 

 LunedìCinemaCineforum 2018 -2019
    

LA STORIA D'ITALIA IN PELLICOLA
Don Camillo  (1952)

 

Pur girati negli anni Cinquanta, con una deriva nei Sessanta (dove potrebbero risultare già anacronistici: ma come vedremo il quinto di film di Comencini è molto interessante), i film del «canone» non possono prescindere dall’atmosfera post-’48 che permea i romanzi di Guareschi. Lo scrittore racconta un Paese diviso in modo manicheo, dà evidenza plastica all’idea delle «due Italie». Ma analizzando il primo film di Duvivier si scoprono cose sorprendenti. La trama comincia nel ’46, ci sono appena state le elezioni del sindaco, il comunista Peppone ha vinto. Il crocifisso dice al prete: «Cosa vuoi farci Don Camillo, è il progresso». Aprire il film in questo modo è doppiamente astuto: da un lato si «legittima» Peppone all’interno della trama, dall’altro si rende altrettanto legittimo – senza mai dirlo apertamente – il risultato elettorale di tre anni prima. Il delegato del Pci invitato a tenere un comizio dopo la vittoria di Peppone pronuncia una frase terribile ma di stretta attualità, almeno fino al ’48: «Dobbiamo restare nella legalità e noi ci resteremo, a costo di imbracciare il mitra e inchiodare al muro tutti i nemici del popolo».
Don Camillo (1952) di Julien DuvivierQuando però esplodono in paese le tensioni, vediamo armi in mano a Don Camillo e agli altri cattolici, e all’agrario padre di Gina, la ragazza ricca di cui si innamora il comunista Mariolino: prima di vedere un compagno in armi occorre arrivare a metà film. Nel frattempo Peppone ha avuto un figlio e vuole farlo battezzare Libero Antonio Lenin, poi corretto in... Libero Antonio Camillo! Il parroco ribatte: «Quand’è così puoi mettere anche Lenin, con un Camillo vicino quei tipi lì non funzionano».


La frase non è solo ironica e accomodante, ha un senso subliminale che rovescia il manicheismo di Guareschi: implica che un Lenin e un Camillo possono stare «vicini», «sempre insieme e sempre avversari» come dice a un certo punto la voce fuori campo letta dal doppiatore Emilio Cigoli. Quando Peppone va a confessarsi dice: «Non è il sindaco, è il cristiano». Quando i due mungono le vacche, rimediando ai danni di uno sciopero avventato, sembrano due onesti lavoratori che faticano assieme. Quando Don Camillo, croce in spalla, affronta l’intero paese Peppone gli dice, indicando Gesù: «Non mi scanso per voi, ma per lui». L’immagine del popolo comunista che segue Don Camillo al fiume, come in processione, sembra uscita dal Vangelo secondo Matteo (1964) di Pasolini. La partita di calcio è un’altra metafora della divisione/unione del paese: sindaco e prete tentano entrambi di corrompere l’arbitro. Quando il vescovo visita sia la Città Giardino di Don Camillo che la Casa del Popolo, benedicendo i comunisti, sembra di vedere Un uomo tranquillo di John Ford (anch’esso del 1952) quando i cattolici del villaggio irlandese si fingono protestanti per aiutare il pastore al quale sono affezionati nonostante le differenze religiose. L’addio di Don Camillo, costretto a lasciare il paese, sembra un trionfo: anche Peppone è lì a salutarlo. La voce fuori campo conclude: «Ecco il paese che sorge in qualche angolo dell’Italia, nella pianura del Po. Ciascuno lotta a suo modo per costruire un mondo migliore»

 

Tutto, nel film, congiura per ottenere un risultato che forse Guareschi approva, o forse no. Ma sicuramente i 50 milioni ottenuti per i diritti del secondo libro, dopo il successo del primo film, aiutano. Don Camillo e Peppone diventano quasi uguali. Le differenze ideologiche passano in secondo piano rispetto alla fede – Peppone è un prototipo di cattocomunista – e alla comune appartenenza antropologica. Sono due uomini del popolo. La contrapposizione violenta viene stemperata: gli scontri non mancano, ma il Don Camillo di Fernandel è meno manesco e più arguto di quello di Guareschi. Grazie a tre francesi – Duvivier, Barjavel, Fernandel – l’Italia fa le prove di compromesso storico.

     Storia D'italia In 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)


da: 
Storia D'italia In 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018)

 
 

 

   Scheda 

      Don Camillo (1952) di Julien Duvivier   
     
PRODUZIONE Italia, Francia  
ANNO 1952  
DURATA 107   
COLORE B/N  
RAPPORTO 4:3  
GENERE Commedia  
REGIA Julien Duvivier    

INTERPRETI E PERSONAGGI


  • Fernandel: don Camillo
  • Gino Cervi: Peppone
  • Sylvie: signora Cristina
  • Vera Talchi: Gina Filotti
  • Franco Interlenghi: Mariolino della Bruciata
  • Saro Urzì: il Brusco
  • Charles Vissières: il Vescovo
  • Marco Tulli: lo Smilzo
  • Giovanni Onorato: Scartazzini
  • Gualtiero Tumiati: Ciro della Bruciata
  • Luciano Manara: Filotti
  • Leda Gloria: signora Bottazzi
  • Mario Siletti: avv. Stiletti
  • Manoel Gary: Cerratini, delegato del PCI
  • Giorgio Albertazzi: don Pietro
  • Olga Solbelli: madre di Gina
  • Armando Migliari: Rosco della Bruciata
  • Carlo Duse: il Bigio
  • Italo Clerici: Barchini, il tipografo
  • Clara Auteri: donna che incita a gridare "Viva
  • Peppone!"
  • Peppino De Martino: un consigliere di maggioranza
  • Franco Pesce: il sacrestano
 

DOPPIATORI ORIGINALI

  • Jean Debucourt: voce crocifisso
 
DOPPIATORI
ITALIANI
  • Carlo Romano: don Camillo
  • Rina Morelli: signora Cristina
  • Gaetano Verna: il Brusco
  • Amilcare Pettinelli: il Vescovo
  • Stefano Sibaldi: lo Smilzo
  • Cesare Fantoni: Scartazzini
  • Aldo Silvani: Ciro della Bruciata
  • Lauro Gazzolo: Filotti
  • Manlio Busoni: avv. Stiletti
  • Bruno Persa: Cerratini, delegato del PCI
  • Renata Marini: donna che incita a gridare "Viva Peppone!"
  • Cesare Polacco: un consigliere di maggioranza
  • Lauro Gazzolo: il sacrestano
  • Franco Galasso: Marco, figlio di Peppone
  • Ruggero Ruggeri: voce crocifisso
  • Emilio Cigoli: voce narrante
 
PREMI National Board of Review Awards 1953: miglior film straniero dell'anno  
SOGGETTO Giovannino Guareschi  
CASA DI PRODUZIONE DCineriz  
SCENEGGIATURA Julien Duvivier, René Barjavel  
FOTOGRAFIA Nicolas Hayer  
MONTAGGIO Maria Rosada  
MUSICHE Alessandro Cicognini  
SCENOGRAFIA Virgilio Marchi