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- Pubblicato Mercoledì, 21 Ottobre 2020 15:00
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LA LEGGEREZZA DI ERNST LUBITSCH Ninotchka (USA 1939) |
"Garbo Laughs!”, La Garbo ride!, così recitavano i claim pubblicitari all’uscita di Ninotchka di Ernst Lubitsch, mostrando, sin dai manifesti pubblicitari, il volto della divina attraversato da un ampio sorriso. Un corpo divino, appunto, come quello di Greta Garbo che ride, che si mostra all’improvviso in un gesto assolutamente, totalmente umano. Siamo nel 1939, nubi di guerra si addensano sull’Europa, Renoir in quel momento sta girando uno dei suoi capolavori, quella Regola del gioco capace di mostrare, sotto forma di gioco del desiderio, l’abisso tra un mondo che sta precipitando e gli eventi di una guerra imminente. Eppure Ninotchcka non sembra essere un film che si allontana dal proprio tempo, che lo vuole dimenticare, anzi. Lubitsch non si allontana dalla vita.
Garbo ride, o meglio, a ridere non è Greta Garbo, ma è Ninotchka, il commissario sovietico giunto a Parigi a controllare i tre emissari governativi che, anziché vendere i gioielli confiscati ad una nobildonna russa passano il loro tempo a godere delle bellezze, delle raffinatezze, dei divertimenti della capitale francese. Ninotchka ride di un capitombolo, di un uomo che cade a terra in un ristorante. Quell’uomo è Melvyn Douglas, Léon, seduttore impenitente, donnaiolo francese, che conquista la donna, le fa perdere l’auratica resistenza proprio cadendo, perdendo (anche lui) il controllo di sé, delle proprie strategie seduttive. È in quel momento che la donna, il commissario, il volto quasi astratto, al di là dell’umano di Greta Garbo si piega in una stupenda, meravigliosa risata.
Ridendo, Ninotchka si libera e si perde al tempo stesso, lasciandosi andare ad un umano desiderio, lieve, di superficie, quasi danzante. Lubitsch costruisce con Ninotchka una magnifica elegia in cui la critica antisovietica che costituisce la trama narrativa del film risulta alla fine la cosa più esile, più fragile, meno importante. Non esiste, nel mondo chiuso del film, fatto di vetrine, di oggetti di consumo, scarpe e cibi raffinati, spazio per il mondo esterno (come non esiste – ma è sempre evocato in un fuori campo inquietante – in La regola del gioco di Renoir). La commedia di Lubitsch è il più umano dell’umano, tutto è riconducibile, deve essere ricondotto a ciò che corrisponde ai desideri di ognuno. Non seguire il proprio desiderio è a condanna più grave, più insostenibile per un uomo. Il percorso di Ninotchka è quello di una dea che ridiventa umana, senza perdere nessuno dei suoi connotati eterei, niente di quel volto senza tempo. È il potere del desiderio, grande movente delle questioni umane, tanto che in Lubitsch tutto può essere ricondotto ad una grande fenomenologia del desiderio, tanto più potente quanto più sottoposto alle leggi dell’ellisse e del mascheramento, dello slittamento e della deviazione. Lo sguardo del regista ne segue i percorsi attraverso i minimi scarti dei personaggi, Greta Garbo in primis, attraverso la differenza tra gli sguardi di Ninotchka all’inizio del film e e alla fine, tra i movimenti controllati del suo corpo al suo arrivo a Parigi e stanchi, quasi affranti, al suo ritorno a Mosca.
La dinamica del desiderio è anzitutto una dinamica della parola. Nella Fenomenologia messa in atto da Lubitsch, la parola è lo spazio e il veicolo del desiderio, ciò che in un certo senso determina anche la posizione dei personaggi, nel mondo come nella storia che viene raccontata. Al tempo stesso è l’immagine, il movimento e il gesto dei corpi a determinare ciò che spesso passa sotto il nome di “Lubitsch touch”, quella capacità appunto di rivelare l’umano attraverso le forme del nascondimento e del gesto, dello sguardo e del discorso, purché essi siano pronti a cedere, a collassare, a mostrare anche i momenti vuoti, i travestimenti, le maschere.
Un corpo che cade da una sedia mentre cerca di far ridere una donna raccontando delle barzellette, ecco. Qui il riso esplode, la parola rivela i suoi vuoti: qui tutto si rovescia, qui il desiderio può farsi strada e i corpi, finalmente danzare. Ma verso dove? Lubitsch non è ingenuo, abbracciare il desiderio non è lo stesso per tutti. I tre emissari si ritroveranno a combattere con le astuzie del capitalismo, mentre per Ninotchka e Léon si tratta di abbandonare ogni mondo, ogni appartenenza, e vivere semplicemente il proprio desiderio. È forse questo che aveva compreso Mamoulian quando realizzerà alcuni anni dopo il remake del film di Lubitsch con Fred Astaire e Cyd Charisse (La bella di Mosca). La trasformazione di Ninotchka in Lubitsch è una esplosione, una sonora liberazione, una negazione del volto divino della Garbo; in Mamoulian è attraverso la danza che il corpo di Cyd Charisse si libera al desiderio, una danza particolare, fatta indossando delle calze di seta (Silk Stockings è il titolo originale), facendo del proprio corpo il luogo di consumo delle merci e diventando però grazie a questo il corpo desiderato da Fred Astaire. Ciò che Mamoulian fa (trasformare il film in un musical) è ciò che in Lubitsch rimane implicito, perché il “tocco di Lubitsch” è appunto una danza che non ha bisogno di esprimersi come tale, perché è la vita stessa.
Rivedere Ninotchka in sala è allora un’esperienza particolare, un’esperienza di godimento, anzitutto. Godimento di un tempo e uno spazio cinematografici dove corpo, gesto e parola disegnano un mondo, in un continuo cambiamento di stato, in un continuo gioco del travestimento e del nascondimento, in un continuo flusso che per Lubitsch era al tempo stesso il cinema e la vita.
da: sentieriselvaggi.it
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- Pubblicato Mercoledì, 21 Ottobre 2020 14:00
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LA LEGGEREZZA DI ERNST LUBITSCH Vogliamo vivere! (USA 1942) |
È sin dal titolo originale (To Be or Not to Be) che la guerra è dichiarata, che le armi sono schierate, che il cinema si mette in gioco (non) come teatro. Dopo la commedia rovesciata in tragico destino di L’uomo che ho ucciso del 1937, lucido e disperato appello contro una guerra percepita imminente, Lubitsch torna nel ’42, in piena guerra, a incrociare il suo tocco (lieve e preciso, feroce e irridente, eppure raffinato e inimitabile) con la tragedia contemporanea, operando un rovesciamento delle forme straordinario.
Di fronte alla pura follia della guerra, alla sua assoluta mancanza di logica, alla ferocia dello sterminio, all’Olocausto che si palesa di fronte a tutti, l’ebreo tedesco Lubitsch risponde con le armi del cinema, di un cinema che crede in se stesso, a cui credere con tutte le sue forze. Non si tratta di costruire un film di propaganda, di realizzare storie e personaggi stereotipati e convenzionali. Si tratta di pensare che l’unica logica contro la guerra è la logica della finzione. I personaggi del film (da Jack Benny nella sua unica apparizione cinematografica a Carole Lombard nella sua ultima) sono attori che recitano molteplici parti, che utilizzano Shakespeare per contrastare la follia di un bombardamento o di un genocidio (il monologo di Shylock ne Il mercante di Venezia che diventa un atto d’accusa contro l’olocausto); che si insinuano travestiti sino dentro i palazzi del potere nazista, travestendosi, diventando essi stessi maschere mimetiche del nemico, moltiplicando spazi e luoghi teatrali, luoghi della messa in scena e della finzione, come un virus inarrestabile.
Come e più del Chaplin de Il grande dittatore, Lubitsch fa della finzione e del rovesciamento uno strumento di scardinamento delle logiche belliche (che sono pura follia, ripetiamolo). Le avventure di un gruppo di scalcinati attori teatrali dell’est, che finiscono per sconfiggere le armate tedesche infiltrandosi al loro interno e travestendosi, recitando corpi e personaggi finzionali, diventa per il regista il meccanismo stesso della finzione cinematografica, dell’immagine che scardina la realtà proprio affermando con forza la sua finzione, il suo essere una moltiplicazione delle possibilità del cinema, della sua fantasia, della sua potenza.
da: sentieriselvaggi.it
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- Pubblicato Mercoledì, 21 Ottobre 2020 13:00
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L'OTTIMISMO DI FRANK CAPRA Accadde una notte (USA ) |
Ellie Andrews (Claudette Colbert), una giovane ereditiera, è innamorata di un aitante aviatore (Jameson Thomas) che suo padre (Walter Connolly) non può sopportare. Decisa a fare di testa sua, Ellie scappa dallo yacht paterno per raggiungere il suo amato a New York. Sulla strada incontra un giornalista (Clark Gable) da poco rimasto senza lavoro: quest'ultimo la riconosce e si offre di accompagnarla a destinazione se, in cambio, potrà avere uno scoop esclusivo sulla vicenda.
Insieme al coevo Ventesimo secolo (1934) di Howard Hawks, è il film che diede il via alla cosiddetta screwball comedy, sottogenere fondamentale del cinema hollywoodiano degli anni Trenta di cui Accadde una notte possiede tutte le caratteristiche principali: al centro c'è una coppia di personaggi eccentrici (ritratti spesso coi toni della commedia slapstick tipica del cinema muto) inizialmente “distanti” che finiranno poi per innamorarsi. La trama ruota così attorno a una vera e propria “guerra tra i sessi” (i continui battibecchi tra Colbert e Gable, “costretti” a fingersi sposati per viaggiare insieme) che, allo stesso tempo, è anche uno scontro tra due classi sociali differenti: lei è ricca, viziata e decisa a sposare un superficiale playboy; lui un reporter pragmatico che tenta in tutti i modi di riguadagnarsi il lavoro che gli hanno tolto. Straordinaria, e coraggiosa per l'epoca, la caratterizzazione del personaggio di Ellie Andrews, ragazza indipendente che, durante il suo viaggio per raggiungere New York, conoscerà per la prima volta gli effetti di quella Depressione che non l'aveva mai toccata in precedenza. Se il regista Frank Capra punta su un registro leggero e sentimentale, non mancano diverse punte drammatiche e toccanti (una donna sviene a causa della fame). A colpire ancora oggi, però, è soprattutto il brio dato alla vicenda: le trovate creative si susseguono una dopo l'altra, e le sequenze memorabili non si contano. Dalla celebre scena dell'autostop alla notevole metafora delle “mura di Gerico”, le soluzioni che hanno fatto scuola sono innumerevoli. Oltre ad aver influenzato praticamente tutte le commedie americane degli anni successivi, il soggetto del film è stato ripreso anche da Autostop (1956) di Dick Powell, che ne è un remake dichiarato. Fu la prima pellicola della storia del cinema a vincere i 5 premi Oscar principali: miglior film, miglior regista, miglior attore protagonista, miglior attrice protagonista e miglior sceneggiatura non originale (Robert Riskin).
da: ongtake.it
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- Pubblicato Mercoledì, 21 Ottobre 2020 12:00
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L'OTTIMISMO DI FRANK CAPRA E' arrivata la felicità (USA 1936) |
Uno schietto e semplice ragazzo americano si reca nella capitale per prendere possesso di un'ingente eredità. Una giornalista, fingendosi povera e bisognosa d'aiuto, lo avvicina per descrivere sul giornale, che così va a ruba, il suo comportamento da sempliciotto. Finirà per innamorarsi di lui e lo aiuterà a difendersi dagli avvoltoi che tentano di dimostrare la sua pazzia (si è messo a regalare soldi ai poveri) per strappargli il patrimonio. È probabilmente il più significativo lavoro di Capra e uno degli indiscussi capolavori del cinema americano. Mr. Deed rappresenta l'americano buono e semplice ma capace di farsi rispettare, colui che da solo combatte contro un sistema palesemente ingiusto, lontano da tutti i valori umani. Memorabile l'interpretazione di Gary Cooper.
da: https://www.mymovies.it
Dal racconto Opera Hat di Clarence Budington Kelland. Un giovanotto di provincia eredita venti milioni di dollari, si trasferisce in città, decide di distribuirli ai poveri. I parenti cercano di farlo passare per matto. Una delle più classiche commedie di Capra, quella che gli fece vincere il 2° Oscar per la regia e l'unica in cui la lieta fine sembra completamente logica. Grazie a un'impeccabile sceneggiatura di Robert Riskin, questa favola da boy-scout non diventa una predica e non perde mai il suo swing. Una delle più divertenti scene di tribunale di tutto il cinema americano con un Cooper perfetto. Fece diventare di uso comune il termine "picchiatello"
da: il Morandini
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