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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Sabato, 08 Settembre 2018 19:00
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LA STORIA D'ITALIA IN PELLICOLA La grande guerra (1959) |
«Una falsa notizia nasce sempre da rappresentazioni collettive preesistenti alla sua nascita... la falsa notizia è lo specchio nel quale ‘la coscienza collettiva’ contempla le proprie fattezze». Così Marc Bloch nelle celebri Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra, pubblicate nel 1921 e recentemente rieditate assieme a un altro fondamentale testo sulla prima guerra mondiale di Joseph Bédier (Bédier-Bloch, pp. 108-109).
È un ottimo vademecum per entrare in La grande guerra (Mario Monicelli, 1959). Il film utilizza e smonta, infatti, due false notizie. La prima – che potremmo definire una macro-falsa notizia – è la «rappresentazione collettiva» della prima guerra mondiale come un conflitto eroico, patriottico, fondante dell’identità nazionale. Rappresentazione che, dopo il film, non è più possibile né credibile. La seconda – che definiremo una micro-falsa notizia – è la conclamata vigliaccheria di Oreste Jacovacci (Alberto Sordi) e Giovanni Busacca (Vittorio Gassman), i due fanti protagonisti del film. È talmente scontato che i due siano dei lavativi, che quando i commilitoni non li vedono durante l’offensiva che dà la vittoria all'esercito italiano ipotizzano subito che si siano imboscati come al solito. Nessuno sa, né saprà mai, che Jacovacci e Busacca sono morti da eroi, fucilati dagli austriaci per non aver rivelato l’ubicazione di un ponte di barche decisivo per le sorti della battaglia.
La prima guerra mondiale è stato il primo conflitto cinematografico della storia. Non solo è stata documentata dal cinema (inventato vent'anni prima) durante il suo svolgimento ed è stata poi raccontata da centinaia di film, ma ha anche visto la presenza del cinema come arma strategica: le macchine da presa montate su mongolfiere e dirigibili giocarono un importante ruolo di spionaggio e di intelligence, come ampiamente raccontato da Paul Virilio nel suo saggio Guerra e cinema. (...)
La grande guerra è, in questa storia, un momento di svolta. È uno dei film più importanti del cinema italiano perché ha cambiato non tanto la conoscenza e la memoria del conflitto, quanto il giudizio, il comune sentire su di esso. Per il pubblico e anche per gli storici: dopo la vittoria del Leone d’oro alla Mostra di Venezia del 1959, e una volta accettata la sua statura di capolavoro, anche gli storici si sono sentiti più liberi di smitizzare l’epica della «grande guerra», di svelare la verità che si nascondeva dietro le leggende (e che i superstiti, in privato, già raccontavano).
L’importanza del film è indirettamente dimostrata dalle enormi difficoltà che il regista Mario Monicelli e il produttore Dino De Laurentiis devono superare per realizzarlo. Il soggetto è dello sceneggiatore Luciano Vincenzoni e si ispira al racconto di Guy de Maupassant Due amici (1883), che si svolge durante la guerra franco-prussiana del 1870-1871. Vincenzoni è colpito dall’idea dei due amici che vanno a pescare, passano inconsapevolmente le linee, vengono catturati dai tedeschi e si rifiutano di fare le spie, preferendo la morte al tradimento. Trasformare due borghesi francesi in due fanti italiani proletari dà all'idea una forza maggiore. «Ci fu una grande battaglia per imporla – ricorda Age, un altro degli sceneggiatori –. |
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da: Storia d'Italia in 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018) |
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Scheda |
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PRODUZIONE | Italia, Francia | ||
ANNO | 1959 | ||
DURATA | 135' | ||
COLORE | B/N | ||
RAPPORTO | 2,35:1 | ||
GENERE | Commedia, drammatico, guerra | ||
REGIA | Mario Monicelli | ||
INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ORIGINALI |
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SOGGETTO | Mario Monicelli, Age & Scarpelli, Luciano Vincenzoni | ||
CASA DI PRODUZIONE | Dino De Laurentiis | ||
SCENEGGIATURA | Mario Monicelli, Age & Scarpelli, Luciano Vincenzoni | ||
FOTOGRAFIA | Leonida Barboni, Roberto Gerardi, Giuseppe Rotunno, Giuseppe Serrandi | ||
MONTAGGIO | Adriana Novelli | ||
MUSICHE | Nino Rota | ||
SCENOGRAFIA | Mario Garbuglia | ||
COSTUMI | Danilo Donati | ||
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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Sabato, 08 Settembre 2018 18:00
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LA STORIA D'ITALIA IN PELLICOLA Amarcord (1973) |
Il copione non ha una sbavatura, una battuta fuori tono. Si ride e si piange, spesso contemporaneamente. L’ironia è alta, feroce ma anche partecipe, e qui si compie il secondo miracolo: fin dal titolo, che in romagnolo significa «mi ricordo», Amarcord è nostalgico senza paura di esserlo. La nostalgia non è necessariamente un sentimento negativo. Al cinema è assai rischiosa, ma in Amarcord il rischio viene corso e superato. Ovviamente non è nostalgia del fascismo, bensì dell’infanzia e dell’adolescenza. Per chi è nato negli anni Venti, come Fellini, gli anni più teneri e belli sono coincisi con il ventennio e il sentimento per quel passato non può che essere ambivalente: giudizio severo sull’Italia di allora (e non è un caso che uno dei numerosi «matti» che popolano il Borgo sia soprannominato proprio così: Giudizio), struggente calore per ciò che si era e non si è più, per le sciocchezze combinate con gli amici, gli scherzi goliardici, i genitori scomparsi, i primi desideri nei confronti di donne irraggiungibili. (...)
Il casting è una serie di colpi di genio. Abbiamo citato Zanin e Ingrassia (anch’egli, siciliano, doppiato: dal bolognese Enzo Robutti), bisognerà citarne tanti altri. I genitori di Titta sono Armando Brancia e Pupella Maggio, entrambi napoletani. Li doppiano Corrado Gaipa (siciliano) e Ave Ninchi (marchigiana). Lo zio Lallo, detto «il Patacca», è il domatore e impresario circense Nando Orfei: lo doppia Romolo Valli, emiliano. La leggendaria tabaccaia è la bolognese Maria Antonietta Beluzzi, con la voce della siculo-romana Solvejg D’Assunta che è la doppiatrice suprema di Fellini, quella che sa fare tutti gli accenti e gli chiude, in fase di doppiaggio, tutte le «cosine» rimaste senza voce (è un ruolo che, in versione maschile, hanno ricoperto negli anni Elio Pandolfi, Carlo Croccolo, Alighiero Noschese e Oreste Lionello; in La dolce vita, ad esempio, Pandolfi doppia tutti i giornalisti della conferenza stampa della Ekberg; in Amarcord i personaggi minori doppiati da Lionello sono almeno sette o otto). (...)
Come film di ricordi Amarcord è straordinariamente oggettivo. Per un regista spesso accusato di essere ombelicale, è sorprendente quanto il film racconti la collettività. Le scene familiari si allargano alla scuola, al tempo libero, alla chiesa, alla casa del fascio, allo struscio serale sul corso. Pur avendo un titolo in prima persona, Amarcord mette in scena una memoria collettiva. Scrive Kezich: «Se un sociologo dovesse fare uno studio dell’Italia fra le due guerre disponendo solo di Amarcord che cosa troverebbe? Famiglie tribali, pessime scuole, repressione sessuale, manicomi-prigione, fascismo. Non si può certo dire che il regista sia stato tenero verso la società vivacchiante sotto il tallone della dittatura... Ed è curioso che un giudizio tanto implacabile sui danni prodotti dal fascismo sulla società italiana venga da un autore dichiaratamente impolitico» (Kezich 1, p. 302). (...)
Quando si svolge Amarcord? Domanda non oziosa. L’arco narrativo copre un anno, da una primavera all’altra. Il passaggio del Rex (che percorse l’Adriatico solo nel suo ultimo viaggio verso Trieste, a guerra già in corso) farebbe pensare al 1932, anno del varo del mitico transatlantico. Ma il Rex non passò mai davanti a Rimini e quella bellissima scena, girata nel backlot di Cinecittà, è un sogno ad occhi aperti, nonché la messinscena dell’orgoglio del regime. Il «nevone» rimanda invece al 1929, quando un’ondata di freddo sommerse tutta l’Italia del Nord e la riviera romagnola in particolare. Il cinema Fulgor espone i cartelloni di un film inventato, La valle dell’amore con Gary Cooper: ma quando Titta vi insegue la Gradisca sullo schermo compare il divo in Beau Geste, il che ci porterebbe addirittura al 1939. |
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Scheda |
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PRODUZIONE | Italia, Francia | ||
ANNO | 1973 | ||
DURATA | 123' | ||
COLORE | Colore | ||
RAPPORTO | 1,85:1 | ||
GENERE | Commedia, drammatico | ||
REGIA | Federico Fellini | ||
INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ORIGINALI |
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SOGGETTO | Federico Fellini, Tonino Guerra | ||
CASA DI PRODUZIONE | F.C. Produzioni, P.E.C.F. | ||
SCENEGGIATURA | Federico Fellini, Tonino Guerra | ||
FOTOGRAFIA | Giuseppe Rotunno | ||
MONTAGGIO | Ruggero Mastroianni | ||
MUSICHE | Nino Rota | ||
SCENOGRAFIA | Danilo Donati | ||
COSTUMI | Danilo Donati | ||
TRUCCO | Rino Carbone | ||
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- Pubblicato Sabato, 08 Settembre 2018 17:00
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LA STORIA D'ITALIA IN PELLICOLA Tutti a casa (1960) |
Tutti a casa entra in produzione nei primi mesi del 1960 per volontà di Dino De Laurentiis, lo stesso produttore di La grande guerra. Il successo commerciale del film di Monicelli cambia radicalmente il mercato del cinema italiano. Viene sdoganata l’idea che divi della commedia come Sordi e Gassman possano morire sullo schermo senza far fuggire il pubblico dalle sale. Entra nel comune sentire, soprattutto, il concetto che la commedia all’italiana può affrontare temi «alti» e drammatici senza snaturarsi; può perseguire la risata e il divertimento mescolandoli con la paura, la tragedia, la morte; può raccontare storie ambientate nel cuore della Storia. Rossellini e Fabrizi l’avevano già detto chiaramente con la famosa «padellata» di Roma città aperta, ma non tutti se n’erano accorti. Con Tutti a casa dubbi e ambiguità vengono spazzati via, e chi vorrà normalizzare la commedia da allora in poi lo farà a proprio rischio e pericolo, mentirà sapendo di mentire.
La scelta del soggetto è perfetta. L’8 settembre è uno snodo storico in cui tragedia e farsa si fondono magnificamente, e nessuno meglio di Alberto Sordi può incarnare un italiano travolto dagli eventi, capace di essere vigliacco ed eroe nel breve volgere di un batter d’occhi. In La grande guerra la sintesi tra coraggio e cialtroneria si realizza nell’ultima sequenza, in Tutti a casa percorre tutto il film. Tutto ciò resterebbe sulla carta se ogni momento del film non fosse straordinariamente autentico. L’autenticità nasce dall’esperienza diretta di uno degli sceneggiatori: Agenore Incrocci in arte Age, «metà» della magnifica coppia Age & Scarpelli, ha vissuto durante la guerra esperienze molto simili a quelle raccontate nel film. (...)
Tutti a casa non è solo la storia dei militari sbandati dopo l’8 settembre. Tutti a casa è la storia di alcuni militari che imparano a diventare uomini, di alcuni sudditi che imparano la democrazia. Ci sono due scene, nel film, che raccontano questo processo in modo quasi brechtiano. Una è la cena a casa del sergente Fornaciari: la polenta sparsa sul tavolo, come si usava una volta, la poca carne nel mezzo, e ciascuno deve mangiare la sua fetta prima di arrivare al companatico; l’americano bara, e Sordi lo sgrida dicendo «fair play». L’altra è la divertentissima scena in treno in cui Innocenzi, Fornaciari e il soldato Codegato mettono ai voti se mangiarsi o no il contenuto della valigia di Ceccarelli, piena di cibo. Gli altri due votano per il sì, Innocenzi vota contro ma si rimette alla maggioranza e partecipa al banchetto. In queste scene la commedia non è una sovrastruttura che si sovrappone al dramma storico, la commedia «è» il dramma, porta nel dramma storico l’imperfezione e l’inadeguatezza che rende umani gli uomini.
E' implicito che, nel finale, Innocenzi diventi un partigiano, uno dei tanti passati con coraggio dal regio esercito alla lotta clandestina. Ma è altrettanto assodato che molti fascisti – a cominciare dal papà di Innocenzi, interpretato dal grande Eduardo De Filippo – non capiscano e non vogliano capire, credano ancora che i tedeschi «hanno l’arma segreta» e che sia doveroso seguire Mussolini al Nord. Proprio come vorrebbe l’amico del padre, il maggiore Nocella, coraggiosamente interpretato da un attore – Mino Doro – che era un divo del cinema fascista e aveva prestato volto e fisico virili a Vecchia guardia, il film di propaganda di Blasetti. Di fronte alla figura paterna, tenera e testarda, amata e incomprensibile (Sordi lo saluta chiamandolo «capoccione») il tenente trova una sola soluzione: la fuga. La trasformazione in cittadino è ancora imparziale, imperfetta. Anche la votazione sul treno – forzandone appena lievemente il portato simbolico – è la nascita di una democrazia basata sull’opportunismo: io voto contro, ma se si tratta di riempirsi lo stomaco sto con la maggioranza. |
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Scheda |
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PRODUZIONE | Italia, Francia | ||
ANNO | 1960 | ||
DURATA | 117' | ||
COLORE | B/N | ||
RAPPORTO | 1,85:1 | ||
GENERE | Drammatico, guerra | ||
REGIA | Luigi Comencini | ||
INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ORIGINALI |
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SOGGETTO | Age & Scarpelli | ||
CASA DI PRODUZIONE | Dino De Laurentiis cinematografica, Orsay Film | ||
SCENEGGIATURA | Age & Scarpelli, Luigi Comencini, Marcello Fondato | ||
FOTOGRAFIA | Carlo Carlini | ||
MONTAGGIO | Nino Baragli | ||
MUSICHE | Francesco Lavagnino | ||
SCENOGRAFIA | Carlo Egidi | ||
COSTUMI | Ugo Pericoli | ||
TRUCCO | Giuliano Laurenti | ||
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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Sabato, 08 Settembre 2018 16:00
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LA STORIA D'ITALIA IN PELLICOLA Se sei vivo spara (1967) |
Se sei vivo spara è un film delirante e non propriamente equilibrato, ma ha un pregio: è un’opera «pop» figlia degli anni Sessanta e ha influenzato non solo Tarantino, ma anche film più intrisi di magia e surrealismo come El topo (Alejandro Jodorowsky, 1970). La cupidigia porta alla morte, e questo è un tema «sessantottino»: il cattivo muore sfigurato dall'oro che ha nascosto, fuso nell'incendio della sua casa. Ma la vera forza del film sta nel rileggere la Resistenza come un sogno fanciullesco, in cui la violenza diventa un gioco sadico e liberatorio. La lotta contro il fascismo diventa un mondo parallelo e lisergico, dove avvengono cose inaccettabili nella vita reale.
Questo fa di Se sei vivo spara la rappresentazione plastica di un’idea più profonda: la Resistenza come parentesi, come esperienza estrema di una generazione che non si è poi riverberata nel dopoguerra. Il sogno finisce, torna la realtà, molti fascisti diventano «ex» e rimangono al loro posto. Questa lettura è ovviamente parziale e riduttiva da un punto di vista storiografico: è sempre giusto ricordare che la Resistenza «ebbe il suo lungo antefatto nella lotta degli antifascisti durante il ventennio»; che ebbe «una base di massa che, se non fu maggioritaria, fu certo di gran lunga più numerosa di quella che un secolo prima aveva voluto o saputo raccogliere il Risorgimento»; e che essa «resta un elemento essenziale che ha reso possibile la fondazione della Repubblica democratica in Italia» (Candeloro, pp. 344-345). Insomma, il giudizio storico deve ricordare che la Resistenza inizia prima dell’8 settembre 1943 e prosegue, almeno come patrimonio politico e ideale, dopo il 25 aprile 1945.
Ma la lettura di cui sopra va tenuta in conto – visto che parliamo di cinema, quindi di arte – da un punto di vista emotivo, soprattutto per coloro che vi hanno attivamente partecipato. Possiamo testimoniare che Questi aveva, per la sua esperienza di partigiano, un atteggiamento in parte mitico, in parte reticente. La raccontava come l’avesse vissuta qualcun altro. Era il periodo in cui si era sentito più vivo, ma era anche lontano, in un «altrove» psicologico dove raramente consentiva ad altri di entrare. Solo a novant'anni ha trovato la voglia di spiegare: «Venti e anche cinquanta anni dopo molte cose affiorano all'improvviso, a volte un solo dettaglio fotografico che esplode... angoscia, paura, orrore, mai più la guerra, mai più avere vent'anni!... Sì, si maledicono i propri vent'anni!... Quando siamo tornati, ci siamo accorti che la realtà era un’altra: lo Stato c’era ancora e con lo Stato dovevi fare i conti. All'inizio hanno messo i prefetti antifascisti, poi nel giro di un anno la burocrazia statale ha ripreso a funzionare e sono tornati i prefetti di carriera... Prima il nostro sogno di libertà e di felicità aveva cancellato lo Stato... Ci aspettavamo una società felice e libera, che non si è mai realizzata»
L’aiuto regista è un ventunenne Gianni Amelio. Il film esce a febbraio del ’67 vietato ai minori di 18 anni e viene sequestrato l’8 marzo: uno spettatore si è sentito male per la scena in cui un «dottore» estrae delle pallottole da un corpo con le dita. Amelio: «Il corpo del morto era fatto con carne di porco, così che le dita degli attori vi potessero scavare dentro con più facilità. E proprio io mi dovevo occupare di quella scena... Capirete che in un villaggetto della Spagna, sotto un sole cocente, quella carne frollava in un attimo, un vero schifo» (Giusti, p. 468). Riesce dopo alcuni giorni, con 5 minuti di tagli: le suddette pallottole nella carne di suino e uno scotennamento a vista. Poi scompare. Rispunta nel 1975 intitolato Oro Hondo, con ulteriori tagli ma con le due scene censurate reintegrate. Il cambio del titolo è per aggirare la censura, come fosse un film nuovo. Rinasce, decenni dopo, in dvd e ridiventa un culto. Quentin Tarantino, Alex Cox e Joe Dante lo adorano. E con loro tutti i registi «pulp» che hanno spostato il confine della rappresentazione della violenza sullo schermo. |
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Scheda |
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PRODUZIONE | Italia, Spagna | ||
ANNO | 1967 | ||
DURATA | 117' (director's cut) | ||
COLORE | B/N | ||
RAPPORTO | 2,35:1 | ||
GENERE | Western | ||
REGIA | Giulio Questi | ||
INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ORIGINALI |
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SOGGETTO | Giulio Questi, Franco Arcalli, da un'idea di Maria Del Carmen | ||
CASA DI PRODUZIONE | Cia Cinematografica, Hispamer Film | ||
SCENEGGIATURA | Franco Arcalli, Giulio Questi, (collaborazione e dialoghi di Benedetto Benedetti) | ||
FOTOGRAFIA | Franco Delli Colli | ||
MONTAGGIO | Franco Arcalli | ||
MUSICHE | Ivan Vandor | ||
SCENOGRAFIA | José Luis Galicia, Jaime Perez Cubero | ||
TRUCCO | Adela Del Pino, Enzo Baraldi | ||
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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Sabato, 08 Settembre 2018 15:00
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LA STORIA D'ITALIA IN PELLICOLA C'eravamo tanto amati (1974) |
Due film hanno raccontato il dopoguerra coprendo un arco narrativo di decenni e tentando un bilancio della ricostruzione post-bellica. Sono due commedie: Una vita difficile (Dino Risi, 1961) e C’eravamo tanto amati (Ettore Scola, 1974). Partono dalla Resistenza, scegliendo come protagonisti dei partigiani, e arrivano al proprio presente: il boom degli incipienti anni Sessanta, le tensioni degli anni Settanta. Alla faccia di chi ha sempre considerato la commedia all’italiana un cinema escapista, d’evasione, sono film nei quali la politica è in primo piano. Di nuovo: alla faccia di chi ha sempre considerato la commedia all’italiana un cinema semplice e semplicistico, sono film dalla struttura narrativa complessa e fortemente metacinematografici. Entrambi riflettono sulla natura del mezzo espressivo: in modo ironico quello di Risi, scavando nelle pieghe del linguaggio quello di Scola. (...)
C’eravamo tanto amati è un film corale, più complesso. Gli ex partigiani sono tre: Antonio (Nino Manfredi), Nicola (Stefano Satta Flores) e Gianni (Vittorio Gassman). Il primo rimane un compagno duro e puro, uno di quei comunisti ortodossi che hanno costituito la spina dorsale del Pci dal ’45 alla Bolognina; il secondo è nato outsider e attaccabrighe, incarna la coscienza critica ma anche autodistruttiva di tutto ciò che si muove a sinistra del Pci; il terzo è il personaggio più problematico e in ultima analisi più interessante, un idealista che si vende al capitale, sposa la figlia di un palazzinaro fascista e annega i sogni di gioventù nella ricchezza.
Se c’è un difetto che si può rimproverare a C’eravamo tanto amati – film per molti versi magnifico, con una narrazione fluviale e personaggi ben scritti e benissimo interpretati – è il suo essere un teorema, in cui i tre personaggi simboleggiano tre anime della sinistra italiana e Luciana (Stefania Sandrelli), la donna di cui tutti e tre si innamorano in momenti e modi diversi, è l’Italia. Se però, nel teorema, Gianni è il Psi pronto a compromettersi con il potere nell’Italia del centro-sinistra, va dato atto a Scola e ai suoi sceneggiatori Age & Scarpelli di aver azzeccato una profezia. Anche se Gianni si arricchisce non «con» la politica, ma tradendo la politica: nel 1974 il Psi di Craxi e De Michelis non era ancora immaginabile. (...)
Sono tanti i tasselli storici, in C’eravamo tanto amati. Dall’iniziale montaggio di cinegiornali (la fine della guerra, il referendum, De Gasperi che prende i soldi da Truman e caccia Togliatti dal governo...) alle adunate nei bar per vedere Lascia o raddoppia? in televisione, fino a una delle scene più belle del film, la ricostruzione del set di La dolce vita a Fontana di Trevi dove Antonio e Luciana si ritrovano dopo molto tempo, e dove Federico Fellini e Marcello Mastroianni fanno i se stessi di quindici anni prima (in Una vita difficile, invece, ci sono apparizioni di Alessandro Blasetti, Vittorio Gassman e Silvana Mangano). Nella scena c’è un momento meraviglioso, quando un assistente va da Fellini e gli chiede di ricevere un ufficiale del Sifar, «ce po’ fa’ comodo per i permessi». Il tizio avanza, stringe la mano al regista e gli dice «sono onorato di conoscere il grande Rossellini». Fellini scoppia a ridere e la sua reazione è genuina, nessuno l’aveva avvisato che l’ufficiale avrebbe pronunciato quella battuta.
Lo scorrere della storia si fa cinema, racconto orale, musica: «Se tentassi di immaginare che cosa avremmo fatto di tutto il materiale scritto nel caso in cui non fosse stato inventato il cinematografo, non mi sentirei di rispondere: nulla. Ne avremmo fatto teatro, racconti, canzoni o favole da raccontare a veglia» (Furio Scarpelli in Faldini-Fofi 3, p. 203). Alla fine cosa rimane, oltre a un gigantesco «boh»? Lasciamolo dire a Scola: «C’è l’idea che in Italia la collettività sia migliore dei suoi governanti e di quelli che parlano a suo nome... non mi pare un film pessimista, se non nel senso gramsciano del ‘pessimismo della ragione’» (Faldini-Fofi 3, p. 204). |
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Scheda |
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PRODUZIONE | Italia | ||
ANNO | 1974 | ||
DURATA | 120' | ||
COLORE | B/N e Colore | ||
RAPPORTO | 1,85:1 | ||
GENERE | Commedia | ||
REGIA | Ettore Scola | ||
INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ORIGINALI |
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SOGGETTO | Age & Scarpelli, Ettore Scola | ||
CASA DI PRODUZIONE | Deantir | ||
SCENEGGIATURA | Age & Scarpelli, Ettore Scola | ||
FOTOGRAFIA | Claudio Cirillo | ||
MONTAGGIO | Raimondo Crociani | ||
MUSICHE | Armando Trovajoli | ||
SCENOGRAFIA | Luciano Ricceri | ||
COSTUMI | Luciano Ricceri | ||
TRUCCO | Goffredo Rocchetti, Giulio Natalucci | ||
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- Pubblicato Sabato, 08 Settembre 2018 14:00
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LA STORIA D'ITALIA IN PELLICOLA Don Camillo (1952) |
Pur girati negli anni Cinquanta, con una deriva nei Sessanta (dove potrebbero risultare già anacronistici: ma come vedremo il quinto di film di Comencini è molto interessante), i film del «canone» non possono prescindere dall’atmosfera post-’48 che permea i romanzi di Guareschi. Lo scrittore racconta un Paese diviso in modo manicheo, dà evidenza plastica all’idea delle «due Italie». Ma analizzando il primo film di Duvivier si scoprono cose sorprendenti. La trama comincia nel ’46, ci sono appena state le elezioni del sindaco, il comunista Peppone ha vinto. Il crocifisso dice al prete: «Cosa vuoi farci Don Camillo, è il progresso». Aprire il film in questo modo è doppiamente astuto: da un lato si «legittima» Peppone all’interno della trama, dall’altro si rende altrettanto legittimo – senza mai dirlo apertamente – il risultato elettorale di tre anni prima. Il delegato del Pci invitato a tenere un comizio dopo la vittoria di Peppone pronuncia una frase terribile ma di stretta attualità, almeno fino al ’48: «Dobbiamo restare nella legalità e noi ci resteremo, a costo di imbracciare il mitra e inchiodare al muro tutti i nemici del popolo».
Quando però esplodono in paese le tensioni, vediamo armi in mano a Don Camillo e agli altri cattolici, e all’agrario padre di Gina, la ragazza ricca di cui si innamora il comunista Mariolino: prima di vedere un compagno in armi occorre arrivare a metà film. Nel frattempo Peppone ha avuto un figlio e vuole farlo battezzare Libero Antonio Lenin, poi corretto in... Libero Antonio Camillo! Il parroco ribatte: «Quand’è così puoi mettere anche Lenin, con un Camillo vicino quei tipi lì non funzionano».
La frase non è solo ironica e accomodante, ha un senso subliminale che rovescia il manicheismo di Guareschi: implica che un Lenin e un Camillo possono stare «vicini», «sempre insieme e sempre avversari» come dice a un certo punto la voce fuori campo letta dal doppiatore Emilio Cigoli. Quando Peppone va a confessarsi dice: «Non è il sindaco, è il cristiano». Quando i due mungono le vacche, rimediando ai danni di uno sciopero avventato, sembrano due onesti lavoratori che faticano assieme. Quando Don Camillo, croce in spalla, affronta l’intero paese Peppone gli dice, indicando Gesù: «Non mi scanso per voi, ma per lui». L’immagine del popolo comunista che segue Don Camillo al fiume, come in processione, sembra uscita dal Vangelo secondo Matteo (1964) di Pasolini. La partita di calcio è un’altra metafora della divisione/unione del paese: sindaco e prete tentano entrambi di corrompere l’arbitro. Quando il vescovo visita sia la Città Giardino di Don Camillo che la Casa del Popolo, benedicendo i comunisti, sembra di vedere Un uomo tranquillo di John Ford (anch’esso del 1952) quando i cattolici del villaggio irlandese si fingono protestanti per aiutare il pastore al quale sono affezionati nonostante le differenze religiose. L’addio di Don Camillo, costretto a lasciare il paese, sembra un trionfo: anche Peppone è lì a salutarlo. La voce fuori campo conclude: «Ecco il paese che sorge in qualche angolo dell’Italia, nella pianura del Po. Ciascuno lotta a suo modo per costruire un mondo migliore»
Tutto, nel film, congiura per ottenere un risultato che forse Guareschi approva, o forse no. Ma sicuramente i 50 milioni ottenuti per i diritti del secondo libro, dopo il successo del primo film, aiutano. Don Camillo e Peppone diventano quasi uguali. Le differenze ideologiche passano in secondo piano rispetto alla fede – Peppone è un prototipo di cattocomunista – e alla comune appartenenza antropologica. Sono due uomini del popolo. La contrapposizione violenta viene stemperata: gli scontri non mancano, ma il Don Camillo di Fernandel è meno manesco e più arguto di quello di Guareschi. Grazie a tre francesi – Duvivier, Barjavel, Fernandel – l’Italia fa le prove di compromesso storico. |
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Scheda |
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PRODUZIONE | Italia, Francia | ||
ANNO | 1952 | ||
DURATA | 107 | ||
COLORE | B/N | ||
RAPPORTO | 4:3 | ||
GENERE | Commedia | ||
REGIA | Julien Duvivier | ||
INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ORIGINALI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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PREMI | National Board of Review Awards 1953: miglior film straniero dell'anno | ||
SOGGETTO | Giovannino Guareschi | ||
CASA DI PRODUZIONE | DCineriz | ||
SCENEGGIATURA | Julien Duvivier, René Barjavel | ||
FOTOGRAFIA | Nicolas Hayer | ||
MONTAGGIO | Maria Rosada | ||
MUSICHE | Alessandro Cicognini | ||
SCENOGRAFIA | Virgilio Marchi | ||
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