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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 18:00
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LA LUNA VISTA DALLA TERRA Apollo 13 (1995) |
Per godere appieno di Apollo 13 (il film), occorre guardarlo con gli occhi di uno spettatore dell’epoca: nel 1995 – dopo Pulp Fiction, Forrest Gump e soprattutto in questo caso dopo Armageddon – Giudizio finale, tanto per capirsi – il film di Ron Howard costituì un vero e proprio balzo in avanti tecnologico e narrativo, un caposaldo della nuova fantascienza in cui iniziava ad essere plausibile immaginare qualunque mondo possibile. Non a caso l’opera – inserita dal The New York Times nei migliori 1000 film di sempre – portò a casa due Oscar, incassando decine di altri premi in giro per il mondo fra cui due Bafta.
Riunendo un cast stellare formato da Tom Hanks, Kevin Bacon, Gary Sinise e Ed Harris, si narra della fallimentare missione Apollo 13, che avrebbe dovuto essere la terza ad atterrare sulla Luna e che invece si trasformò in una mozzafiato corsa contro il tempo per portare in salvo un equipaggio disperso nello spazio profondo e via via sempre più a corto di energia e ossigeno. Il film si rivela molto fedele all’evento originale, anche grazie alla sceneggiatura desunta direttamente dal libro Lost Moon, scritto dal vero comandante dell’equipaggio Jim Lovell. Ripercorriamo le fasi salienti di questa incredibile avventura.
La missione prende forma in un clima di scetticismo generale: dopo il primo storico allunaggio dell’Apollo 11 del 24 luglio 1969, infatti, la corsa allo spazio era stata ufficialmente vinta dagli Stati Uniti, in un tesissimo testa a testa con l’Unione Sovietica (parte della contrapposizione politica e militare passata alla Storia come Guerra Fredda). L’opinione pubblica, in sintesi, inizia a pensare che non sia più così necessario stanziare decine di milioni di euro per la scoperta del cosmo. L’obiettivo era stato raggiunto, e le priorità – durante il mandato presidenziale di Richard Nixon – iniziavano ad essere altre.
Nonostante questo, la NASA prosegue il proprio progetto (l’ultimo essere umano a camminare sulla Luna sarà Eugene Cernan nel 1972, dopo un viaggio di quattro giorni sull’Apollo 17), annunciando già nel 1969 il personale di bordo dell’Apollo 13: Jim Lovell, Ken Mattingly e Fred Haise. Il lancio è circondato da oscuri presagi: su tutti il precedente dell’incendio del 1967 (solo evocato da Apollo 13, e messo in scena dall’eccezionale First Man di Damien Chazelle) e l’imprevisto occorso a Mattingly che, esposto ad un possibile contagio di rosolia – poi mai avvenuto – venne sostituito a cinque giorni dalla partenza dalla riserva Jack Swigert. L’11 aprile 1970, alle ore 19.13, l’Apollo 13 inizia il suo impervio viaggio nello spazio.
Come in un imprevedibile effetto domino, la missione inanella un guasto dopo l’altro fin da subito: il motore centrale inizia ad avere problemi per gli sbalzi dell’erogazione del propellente, e dopo 55 ore uno dei quattro serbatoi d’ossigeno esplode a causa di una scintilla, costringendo i tre astronauti a trasferirsi nel modulo lunare Aquarius. Il lander a questo punto da mezzo per atterrare sulla Luna diventa nave d’emergenza per il ritorno, con tutte le scomodità del caso: il LEM è predisposto per ospitare due persone per due giorni, ma la necessità lo porta a dover traghettare tre persone per quattro giorni. Il viaggio, dapprima ignorato dai media (il film rende in modo piuttosto efficace la finta diretta tv per tenere alto il morale dell’equipaggio), risale agli onori della cronaca: tutto il mondo segue i drammatici eventi, chiedendosi quale sarà il destino dei tre eroi spaziali.
Come dimostra la registrazione audio originale, al momento dell’esplosione del serbatoio – avvenuta a oltre 300 mila chilometri dalla Terra – il messaggio inviato alla sede di Cape Canaveral fu letteralmente “Okay, Houston, abbiamo avuto un problema qui”. Una frase divenuta emblema non solo di quella che è passata alla Storia come la più grave situazione nei voli spaziali con equipaggio, ma anche della capacità del programma di affrontare crisi imprevedibili, facendo emergere la capacità di risoluzione dei problemi di esseri umani messi sotto estrema pressione psicologica, in grado di mantenere il controllo nonostante tutto sembri portare a un disastro imminente.
Facendo di necessità virtù, si optò per un passaggio attorno alla Luna del modulo, per riprendere la rotta verso la Terra grazie a una sorta di “effetto catapulta” che riducesse al minimo lo spreco di energie della navicella. La traiettoria di rientro portò il gruppo alla massima distanza raggiunta da un uomo dalla Terra (400 mila chilometri, record tutt’ora detenuto), costringendolo fra le altre cose a svariate operazioni di emergenza. Come la duplice accensione del motore del LEM (la prima per acquistare velocità, la seconda per correggere la traiettoria), progettato in realtà per essere messo in funzione una sola volta; o come la costruzione di un adattatore rudimentale, fondamentale per mantenere in funzione le apparecchiature e permettere il rientro nell’atmosfera.
Proprio durante questo processo – estremamente rischioso, vista la possibilità di surriscaldamento della sonda – il blackout radio durò ben 266 secondi (86 secondi più del previsto), facendo temere il peggio e tenendo tutti col fiato sospeso per un breve e intensissimo lasso di tempo. Alle 13.07 del 17 aprile 1970 l’Apollo 13 atterrò nelle acque dell’Oceano Pacifico, portando incredibilmente in salvo tutti e tre i membri dell’equipaggio. Dal fallimento sorse un successo, celebrato da un film di culto in alcuni punti forse eccessivamente patriottico ma capace di restituire appieno la tensione epica ed eroica di un gruppo di persone in lotta contro il tempo e le avversità.
da: https://www.cinematographe.it/
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Scheda |
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TITOLO ORIGINALE | Apollo 13 | ||
LINGUA ORIGINALE | Inglese | ||
PRODUZIONE | Stati Uniti d'America | ||
ANNO | 1995 | ||
DURATA | 134' | ||
COLORE | Color (DeLuxe) | ||
RAPPORTO | 2.39 : 1 | ||
GENERE | Storico, drammatico, storico, avventura | ||
REGIA | Ron Howard |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | Jim Lovell, Jeffrey Kluger |
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PRODUTTORE | Universal Pictures |
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SCENEGGIATURA | William Broyles Jr., Al Reinert | ||
FOTOGRAFIA | Dean Cundey | ||
MONTAGGIO | Daniel P. Hanley, Mike Hill | ||
SCENOGRAFIA | Merideth Boswell | ||
MUSICHE | James Horner | ||
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 17:00
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LA LUNA VISTA DALLA TERRA Moon (2010) |
Il giovane Duncan Jones, figlio d’arte che aveva già fatto parlare di sé col fortunato cortometraggio Whistle, cita i classici con una personalità e una perizia che non lasciano adito a dubbi. In Moon vi è un amore per la science fiction che nasce da lontano, quantomeno dal periodo d’oro degli anni ’70, con il loro carico di riflessioni filosofiche sul futuro dell’umanità; e con quell'odore di modellini, di soluzioni artigianali, che sapeva conferire un look appropriato e inconfondibile agli esiti più maturi di un filone fecondo.
Base Luna chiama Terra.
Sam Bell è impiegato da tre anni presso la base lunare Selene, adibita all’estrazione dell’Elio-3, che potrebbe salvare la Terra da una grossa crisi energetica. Sam ha vissuto tre anni nella base con l’unica compagnia di un robot di nome Gertie, sognando di riabbracciare al più presto le moglie e la figlioletta. A due settimane dalla fine del suo contratto inizia ad avere allucinazioni e soffrire di forti mal di testa, la perdita di lucidità lo porta a compiere un fatale errore, che causa la mancata estrazione del prezioso gas… [sinossi]
Dopo aver trionfato al Festival Internacional de Cine Fantástico di Sitges, in Spagna, e dopo aver fatto incetta di premi in diverse altre manifestazioni cinematografiche di rilievo internazionale, Moon di Duncan Jones è finalmente approdato in Italia. Anche a Trieste, dove il film è stato visto in anteprima nell'ambito di Science Fiction, si è creato un notevole interesse. Ma quali sono i reali motivi di un’accoglienza così calorosa da parte della critica e degli appassionati di un genere difficile, come la fantascienza? Di certo ha contribuito la curiosità per l’esordio di un artista che non può passare inosservato. Duncan Jones, noto anche come Zowie Bowie, è per l’appunto il figlio del grande David Bowie, il Duca Bianco, che a sua volta con lo spazio profondo e i cieli stellati può vantare un feeling invidiabile: non solo per canzoni come Space Oddity e Starman, ma anche per aver interpretato nel 1976 L’uomo che cadde sulla Terra.
Tuttavia, occorre levarsi subito dalla testa che il retaggio paterno sia l’unico solido appiglio di un’opera che, al contrario, appare destinata a restare nel cuore di coloro che amano il genere. E tra questi sicuramente c’è Duncan Jones. Il regista, che aveva già fatto parlare di sé col fortunato cortometraggio Whistle, cita i classici con una personalità e una perizia che non lasciano adito a dubbi. In Moon vi è un amore per la science fiction che nasce da lontano, quantomeno dal periodo d’oro degli anni ’70, con il loro carico di riflessioni filosofiche sul futuro dell’umanità; e con quell'odore di modellini, di soluzioni artigianali, che sapeva conferire un look appropriato e inconfondibile agli esiti più maturi di un filone fecondo. Cominciamo col circostanziare meglio il peso di una simile eredità. Nella pellicola di Duncan Jones si scorge in filigrana il fantasma di 2001: Odissea nello spazio, contaminato magari con Silent Running di Douglas Trumbull (ovvero 2002, la seconda odissea, stando all’idea di pseudo-sequel perseguita allora dalla distribuzione italiana). Detto così suonerebbe alquanto pretenzioso. Ma Duncan Jones, senza strafare, è riuscito ad attualizzare certe problematiche e gli standard visivi dell’epoca, colonizzando con stile il volto oscuro della luna.
L’incipit di Moon è a suo modo emblematico: da un rapido montaggio che sintetizza la crisi energetica e le catastrofi ambientali all’alba del ventunesimo secolo, neanche fosse l’ideale prosecuzione dell’allarme lanciato da altri con Una scomoda verità e The Age of Stupid, si passa alla possibile soluzione. Si immagina cioè che nell'immediato futuro l’umanità abbia risolto il problema energetico facendo finalmente ricorso a fonti diverse da quelle tradizionali, più in particolare creando basi sulla superficie lunare per l’estrazione di Elio-3. Ed ecco quindi la location di questo kammerspiel spaziale: the Dark Side of the Moon.
Ma come sarà la vita dell’uomo sul satellite della Terra? E la scoperta della nuova risorsa sarà sufficiente a bilanciare il cinismo della società capitalista? Questo secondo interrogativo è diretta conseguenza dei metodi spregiudicati posti in atto dalla Lunar, la società che si occupa della produzione di Elio-3 e del suo invio sul pianeta. I complessi macchinari installati dalla società sulla base lunare e sul perimetro circostante sono sotto il controllo di un solitario astronauta, Sam Bell, coadiuvato da un calcolatore elettronico, ribattezzato “Gerty” (e nella versione originale è addirittura Kevin Spacey a prestargli la voce). Duncan Jones sembra riaggiornare con una certa ironia il conflitto tra la personalità umana e quella del computer, già brillantemente esplorato in 2001: Odissea nello spazio. Rispetto ad Hal 9000 il suo epigono Gerty sembra provare una diversa e più accentuata empatia verso l’astronauta a cui presta assistenza, impressione sottolineata da una delle trovate più brillanti della pellicola: l’uso degli Emoticons, delle cosiddette “faccine” care agli utenti della Rete, per denunciare i frequenti cambiamenti di umore del computer.
Del resto Moon è un’opera ben concepita anche a livello di dettagli, di suggestioni scenografiche, che fanno colpo sin dai titoli di testa. Il prosieguo del racconto tirerà in ballo, oltre all’eredità di 2001, una cospicua serie di implicazioni rapportabili tanto a Blade Runner (la vita dei cloni che pone domande, come la poneva quella dei “replicanti” nel capolavoro di Ridley Scott), che ad altri classici della fantascienza di ispirazione cyberpunk, per quanto riguarda l’agire libero e spregiudicato di certe corporations.
Accanto alla classe dimostrata dall'autore al suo esordio, vorremmo sottolineare un altro fattore che ha contribuito, in misura determinante, alla riuscita dell’opera: la bravura e la sensibilità di Sam Rockwell nelle vesti del protagonista Sam Bell. Non era certo facile per lui, attore in crescita che già in Soffocare di Clark Gregg aveva saputo stupirci, affrontare un ruolo del genere; un ruolo tale da costringerlo a confrontarsi persino col suo doppio (Robin Chalk), dopo l’incidente che ne metterà in crisi l’identità e la stessa permanenza sulla stazione spaziale. Aver impostato in modo così pregnante il rapporto tra lui e Gerty, è un altro merito da attribuire sia allo sceneggiatore Nathan Parker che a questo debuttante dagli illustri natali, Duncan Jones. Mai come ora ci viene spontaneo affermare: buon sangue non mente.
da: https://quinlan.it
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Scheda |
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TITOLO ORIGINALE | Moon | ||
LINGUA ORIGINALE | Inglese | ||
PRODUZIONE | Regno Unito | ||
ANNO | 2009 | ||
DURATA | 97' | ||
COLORE | Color (DeLuxe) | ||
RAPPORTO | 2.35 : 1 | ||
GENERE | Fantascienza, thriller, drammatico | ||
REGIA | Duncan Jones |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | Duncan Jones |
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PRODUZIONE | Liberty Films UK, Lunar Industries, Xingu Films |
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SCENEGGIATURA | Nathan Parker | ||
FOTOGRAFIA | Gary Shaw | ||
MONTAGGIO | Nicolas Gaster | ||
EFFETTI SPECIALI | Cinesite, Visual Effects Company | ||
SCENOGRAFIA | Tony Noble | ||
MUSICHE | Clint Mansell | ||
COSTUMI | Jane Petrie | ||
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 16:00
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LA LUNA VISTA DALLA TERRA Space Cowboys (2000) |
Il principale satellite russo per la comunicazione è in avaria. Rischia di precipitare sulla Terra nel giro di poco tempo. I suoi impianti ricalcano quelli dello Skylab americano, una tecnologia ormai obsoleta che nessuno sa più come riparare. Nessuno tranne i 4 vecchi componenti del gruppo Dedalus che era stato sciolto alla fine degli anni Cinquanta. Gli anzianauti si riuniscono e mostrano in fase di allenamento quello che sanno fare. La strategia del responsabile NASA, loro antico nemico, è quella di far esercitare insieme a loro dei giovani astronauti in modo da farli restare a terra all'ultimo momento. Non va così e i nostri partono. Ma una sorpresa non piacevole li attende...
Clint Eastwood continua il suo percorso di rivisitazione dei miti del cinema americano. La sua però non è l'opera di un iconoclasta. Clint ama ciò che fa e ama il western. Quando ci mostra i quattro vecchietti che si preparano ad andare nello spazio lo fa con grande ironia ma anche con grande affetto. La frontiera, il nemico da sconfiggere, stanno lassù? Ecco allora i Nostri pronti a partire, con quel mix di individualismo e di spirito di squadra che costituisce la formula vincente. Il finale celebra un sacrificio ma non cerca l'applauso.
da: https://www.mymovies.it/
Dopo il fiacco Potere assoluto e il deprimente Fino a prova contraria l'immarcescibile Clint Eastwood torna in una storia dinamica e divertente che potrebbe avere come titolo ideale I tre moschettieri (quaranta anni dopo) nello spazio. Già, perché i personaggi di questo film sono incredibilmente modellati sui personaggi creati da Alexandre Dumas. C'è D'Artagnan (Eastwood) intelligente, idealista e guascone, c'è l'ex pilota che ha smesso la tuta per l'abito di predicatore (Garner) come Aramis, c'è un Porthos folle e profondamente umano come Tommy Lee Jones, c'è un Athos intrigante e donnaiolo come Donald Sutherland e c'è un cardinale Richielieu, plenipotenziario della NASA interpretato da James Cromwell tutto dedito a tramare contro tutto e tutti.
Questi personaggi prevedibili interpretati da veri e propri mattatori che sono stati scelti da Eastwood al rifiuto di Jack Nicholson e Sean Connery, si inseriscono nel tessuto di una trama fantascientifica non priva di una certa originalità. 1958: i piloti del Team Daedalus si allenano duramente per il primo lancio nello spazio, ma il passaggio del progetto dall'Aeronautica Militare ai civili della NASA li taglia fuori, riservando l'onore a uno scimpanzé.
Quaranta e passa anni dopo: il satellite per le comunicazioni russo Ikon è uscito dall'orbita e sta per schiantarsi sulla terra. Ikon dispone dello stesso sistema di navigazione del vecchio Skylab, progettato 40 anni prima dal dottor Frank Corbin (Eastwood), membro e leader naturale del Team Daedalus e ormai in pensione: questi accetterà di andare a riparare il satellite russo soltanto a patto di poter compiere la missione con la sua vecchia squadra.
La passione per il volo, battute da caserma, spacconate di ogni genere accompagnate da un sorprendente senso dell'onore e della lealtà trasformano i quattro protagonisti in un'interessante metafora della nostra modernità dove i vecchi anziché rispettati e coccolati come fonte primaria di saggezza vengono relegati a vegetare sui campi di bocce o di golf a seconda della latitudine geografica. Decisi a coronare il loro sogno "interrotto" tanti anni prima, i quattro nonnetti si rivelano determinanti nel tentare di salvare il mondo alla loro maniera old fashion quanto vuoi, ma sicuramente molto efficace.
Spettacolare, ma essenziale Space Cowboys è un film divertente e efficace in cui le mattane dei quattro protagonisti (capaci perfino di prendere quasi al lazo il satellite russo...) sono esaltate da battute fulminanti e situazioni esplosive al limite dell'esilarante. Una fantascienza molto umana non troppo diversa da quella alla base di Armageddon o di Capricorn One in cui il fattore umano diventa decisivo per spiegare il sogno di quattro anziani di fare -- finalmente -- gli astronauti, come molti bambini confessano in segreto alle madri guardando in alto verso la luna e verso dove nessun uomo è mai stato prima...Space Cowboys è un omaggio a questo desiderio e a tutti i piccoli che hanno anelato in ogni epoca di cavalcare le immense praterie del cielo.
da: https://www.fantascienza.com
da:
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Scheda |
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TITOLO ORIGINALE | Space Cowboys | ||
LINGUA ORIGINALE | Inglese | ||
PRODUZIONE | Stati Uniti d'America | ||
ANNO | 2000 | ||
DURATA | 130' | ||
COLORE | Black and White | Color (Technicolor) | ||
RAPPORTO | 2.39 : 1 | ||
GENERE | Avventura, azione, drammatico, fantascienza | ||
REGIA | Clint Eastwood |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | Ken Kaufman, Howard Klausner |
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PRODUTTORE | Clint Eastwood, Andrew Lazar |
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SCENEGGIATURA | Ken Kaufman, Howard Klausner | ||
FOTOGRAFIA | Jack N. Green | ||
MONTAGGIO | Joel Cox | ||
SCENOGRAFIA | Henry Bumstead, Jack G. Taylor Jr. e Richard C. Goddard | ||
MUSICHE | Clint Eastwood, Lennie | ||
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 15:00
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100 ANNI CON FELLINI I Vitelloni (1953) |
Il più sincero, triste ed autobiografico Fellini. Cinque uomini, tutti sulla trentina, nella provincia immobile di quella che riprende Rimini negli anni 50. Cinque vitelloni quindi, un gruppo di pasciuti amici che non vogliono crescere e che riesce a vivere nell’impasse generazionale che li lega. Moraldo (quello che più si avvicina alla figura di Fellini non ancora regista) è il più sensibile, introverso, silenzioso, ma anche il più coraggioso, perché sarà l’unico ad abbandonare il paese senza avere ancora in mente il luogo di destinazione. Albertone, il più mammone della comitiva, solo dopo una grossa sbronza si avvicinerà all’idea di maturare (che coincide con la presa di coscienza del matrimonio-legame), ma si ritroverà alla fine ancora legato alla figura della vecchia madre, promettendole che non l’abbandonerà mai come invece ha appena fatto sua sorella Olga scappando con un uomo sposato. Riccardo e Leopoldo, tenore e drammaturgo bloccati nella ricerca dell’ispirazione e delle possibilità, e poi Franco, il bello della comitiva, sposato e votato alle scappatelle, che accetterà di considerarsi marito solo dopo le cinghiate di suo padre.
Racconto amaro sull’immobilità della provincia, sulla mancanza d’aspirazioni di un determinato gruppo di ragazzi che continua a vedersi lontano dal mondo della maturità legata alla responsabilità del ruolo. Federico Fellini scappa da quest’immobilismo, ma attraverso l’ultimo sguardo-commento-battuta di Moraldo, fugge con un senso di disagio per il nuovo e dispiacere per il vecchio. È ancora incerto, rimpiange, non rinnega, se ne allontana. L’immagine che chiude il film è quella del ragazzino lavoratore, in bilico sulla linea retta dei binari. Una speranza, o la morte della fanciullezza.
Primi grossi e pesanti passi del regista nell’immaginario deformante (la festa di carnevale dove Alberto Sordi è sopraffatto da alcol e coscienza) e malinconico (passeggiate sulla spiaggia d’inverno) che determineranno la trama della sua imponente storia cinematografica. Regia pulita, riconosciuta come un capolavoro d’artista, il film rappresenta già l’altezza (ed uno dei momenti più alti) di tutto il lavoro del maestro riminese.
Ottimo cast d’attori, specialmente il trio Moraldo, Franco, Alberto (Interlenghi-Fabrizi-Sordi) quest’ultimo riconosciuto con il Nastro d’argento come miglior attore (il film ottenne anche il Nastro d’argento come miglior film e produzione ed il Leone d’argento a Venezia nel 1953). Alberto Sordi, con il gesto dell’ombrello mentre fa una pernacchia ad un gruppo di operai e poi viene rincorso da questi una volta che si blocca l’automobile sulla quale stava viaggiando, rimarrà per sempre nella comune memoria dello spettatore italiano. Fabrizi è doppiato da Nino Manfredi e Trieste da Adolfo Geri. Franco Interlenghi è stato Pasquale in Sciuscià (1943) di Vittorio De Sica. Completo, moderno, racconta un momento della vita comune a tutti. Sarcasticamente commovente.
da: http://www.cinemah.com
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Scheda |
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PRODUZIONE | Italia, Francia | ||
ANNO | 1953 | ||
DURATA | 108' | ||
COLORE | B/N | ||
RAPPORTO | 1,37 : 1 | ||
GENERE | Commedia, Drammatico | ||
REGIA | Federico Fellini |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | Federico Fellini, Ennio Flaiano, Tullio Pinelli |
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PRODUTTORE | Peg Films, Cite Films |
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SCENEGGIATURA | Federico Fellini, Ennio Flaiano | ||
FOTOGRAFIA | Carlo Carlini, Otello Martelli, Luciano Trasatti | ||
MONTAGGIO | Rolando Benedetti | ||
SCENOGRAFIA | Mario Chiari | ||
MUSICHE | Nino Rota, diretta da Franco Ferrara | ||
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 14:00
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100 ANNI CON FELLINI Toby Dammit (1968) Block notes di un regista (1969) |
TOBY DAMMIT - Federico Fellini, 1968
Tutti conoscono il Cinema del nostro Federico Fellini, uno dei più famosi e amati registi di sempre.
In pochi, però, hanno visto l’episodio Toby Dammit, inserito nel film Tre Passi nel Delirio, antologia liberamente ispirata ai racconti di Edgar Alla Poe. Il film, distribuito nei cinema nel lontano 1968, è un vero e proprio omaggio allo scrittore di Boston da parte di Louis Malle, Roger Vadim e Federico Fellini, appunto.
Dei tre episodi, quello assolutamente da vedere nonché quello più riuscito è proprio quello del regista nato a Rimini nel 1920.
Toby Dammit, con Terence Stamp, Salvo Randone, Milena Vukotic e ispirato a Mai Scommettere la Testa col Diavolo, racconta di un attore alcolizzato che accetta di prendere parte a un western all’italiana in cambio di una Ferrari. In poco più di quaranta minuti, Fellini dirige la sua opera più oscura, minacciosa e paurosa. Un’autentica gemma, fin troppo spesso dimenticata, della filmografia del nostro.
LA SCENA CULT
La furiosa folle corsa notturna in auto di Toby Dammit, interpretato da un grande Terence Stamp. Indimenticabile.
LE CURIOSITA’
Marlon Brando e Richard Burton sono stati entrambi considerati per interpretare il ruolo di Toby Dammit.
Tre Panni nel Delirio è stato distribuito in Inghilterra solamente nel 1973. Nel 2019 è invece uscito per il mercato inglese in Blu-ray e DVD con il titolo Spirits of the Dead.
In Toby Dammit appare brevemente una bambina che ricorda, da vicino, il bambino presente in Operazione Paura, capolavoro di un altro Maestro del Cinema: Mario Bava. Fellini però non informò mai Bava di questa citazione, il regista horror se ne accorse solamente quando vide il film in sala.
Una versione restaurata di Toby Dammit è stata presentata all’edizione 2008 del Tribeca Film Festival di New York. Il restauro, a cura del direttore della fotografia Giuseppe Rotunno, è stato possibile grazie al Centro Sperimentale di Cinematografia e al contributo di Ornella Muti e KGC.
Il finale di Toby Dammit è tutto incentrato su di una folle corsa notturna in auto del protagonista. La sequenza ricorda da vicino la scena di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick dove i quattro drughi sono a bordo di un auto prima di scatenarsi in una lunga notte di ultraviolenza.
da: http://barracudastyle.com/
BLOCK-NOTES DI UN REGISTA di Federico Fellini
Documentario fittizio e auto-narrazione in forma diaristica, redatta e girata da Federico Fellini mentre era sul set per Il viaggio di G. Mastorna, il suo grande progetto mai realizzato. C'è spazio anche per i dettagli delle ricerche relative alla preparazione e alla lavorazione del Satyricon.
Come dimostrerà ampiamente in seguito, il Fellini dell'ultima parte della sua carriera è un autore che nel metacinema è armoniosamente a suo agio: non esita a mettersi in scena sempre e comunque, sbandierando un indulgente autobiografismo affiancato da una sostanza poetica che con gli anni si andrà facendo sempre più concreta. Questo è il preludio in provetta a quella tipologia di cinema, una cine-agenda di nome e di fatto di discreta importanza storica, in rapporto al Fellini che seguirà ma anche come documento sui suoi metodi di lavoro. Il materiale però non è tutto interessante o irrinunciabile, e c'è qualche passaggio di troppo in cui manca un po' di appeal. La vera chicca è il provino di Marcello Mastroianni per il ruolo di Mastorna, che dice moltissimo del rapporto tra il regista e il suo divo prediletto.
da: https://www.longtake.it/
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Scheda |
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TITOLO | Toby Dammit | ||
PRODUZIONE | Francia, Italia | ||
ANNO | 1968 | ||
DURATA | 43' | ||
COLORE | Colore |
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RAPPORTO | 1.75 : 1 | ||
GENERE | Orrore, thriller | ||
REGIA | Federico Fellini |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | dal racconto di Edgar Alan Poe | ||
PRODUTTORE | Alberto Grimaldi, Raymond Eger |
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SCENEGGIATURA | Bernardino Zapponi, Federico Fellini, Louis Malle, Roger Vadim, Pascal Cousin | ||
FOTOGRAFIA | Giuseppe Rotunno |
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MONTAGGIO | Ruggero Mastroianni | ||
SCENOGRAFIA | Pietro Tosi | ||
MUSICHE | Nino Rota | ||
TITOLO | Block-notes di un regista | ||
LINGUA ORIGINALE | Inglese, italiano | ||
PRODUZIONE | Stati Uniti | ||
ANNO | 1969 | ||
DURATA | 60' | ||
COLORE | Colore | ||
RAPPORTO | 1,33 : 1 | ||
GENERE | Documentario | ||
REGIA | Federico Fellini | ||
INTERPRETI E PERSONAGGI |
Federico Fellini: se stesso Giulietta Masina: se stessa Marcello Mastroianni: se stesso Caterina Boratto: se stessa Marina Boratto: se stessa David Maumsell: se stesso prof. Genius: se stesso Cesarino: se stesso Bernardino Zapponi: se stesso Lina Alberti: se stessa Alvaro Vitali: se stesso Ennio Antonelli: se stesso Attori non professionisti |
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SOGGETTO | Federico Fellini, Bernardino Zapponi | ||
SCENEGGIATURA | Federico Fellini, Bernardino Zapponi | ||
FOTOGRAFIA | Pasqualino De Santis | ||
MONTAGGIO | Ruggero Mastroianni | ||
MUSICHE | Nino Rota | ||
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 13:00
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100 ANNI CON FELLINI Fellini Satyricon (1969) |
I protagonisti sono Ascilto ed Encolpio, due giovani scapestrati romani che vivono di espedienti in una Roma imperiale simbolo della decadenza morale dei tempi. Lo sfondo sociologico del film è quello delle nuove classi sociali, come i liberti arricchiti e i cavalieri.
I due si innamorano dell'efebo Gitone e per un po' le sue grazie vengono divise dai due fino a che questi sceglie Ascilto. A questo punto, Encolpio sconfortato si lascia andare psicologicamente e viene coinvolto in varie avventure...
La fonte bibliografica principale a cui si ispirarono Fellini e il cosceneggiatore Bernardino Zapponi è La vita quotidiana a Roma all'apogeo dell'Impero (1939) di Jérôme Carcopino (1881-1970). Il film fu distribuito e prodotto dalla P.E.A. in collaborazione con Les Productions Artistes Associes di Parigi. Il regista stesso definì il film come "un saggio di fantascienza del passato", ma la critica apparve subito spiazzata dall'estremo sperimentalismo narrativo di tipo onirico che Fellini adottò nel film, e per questo molti recensori furono discordi sul valore e il significato dell'opera. In realtà il regista aveva intenzione di prendere l’opera petroniana semplicemente come spunto per descrivere, attraverso il fasto decadente della Roma imperiale dell’epoca, la decadenza stessa insita nella nostra civiltà occidentale moderna e contemporanea. Egli vuole rendere l’instabilità della condizione umana e la forza del Caso che pervade tutte le culture nella fase della curva discendente e che interviene a far percepire all’essere umano la caducità della propria vita e l’impossibilità di prevedere ciò che riserva il futuro.
«Nella sua struttura di ricognizione onirica di un passato inconoscibile e di rapporto fantastorico sulla Roma imperiale al tramonto, come guardata attraverso l'oblò di un’astronave, il Satyricon non nasconde le sue ambizioni di essere un film sull'oggi]]. L’itinerario picaresco e becero dei due vitelloni antichi (purtroppo né personaggi veri né simboli) lascia il posto a un’ansia esistenziale e religiosa, all’interrogazione sul significato del nostro passaggio terreno. Su questo versante – al di là della straordinaria ricchezza figurativa, funerea e notturna dell’insieme – i momenti più felici sono l’episodio della villa dei suicidi e l’addio alla vita del poeta Eumolpo» (Morando Morandini[3])
Il critico cinematografico Davide Rinaldi così spiega l’intimo significato del film ponendo un parallelo con La dolce vita: «Come ne La dolce vita, il Fellini Satyricon mette i riflettori sulle abiezioni umane, i sogni, le babilonie, la negatività del protagonista, ma mentre il primo film si muoveva nell’ambito della civiltà contemporanea (riconoscibile per tutti) il secondo indaga l’inconscio collettivo, e per questo rappresenta un percorso e un'opera più ostica, a tratti noiosa, non di certo rassicurante. Gli spettatori assistono al film come se questo fosse fatto di sabbie mobili: ogni elemento contiene dei buchi neri in cui perdersi e per cui perdere continuamente il filo del discorso. La grandezza del Fellini Satyricon consiste ancora una volta nella sua inutilità, nel suo essere svincolato dai problemi dell’oggi e del domani, ma di rivolgersi direttamente nell’interiorità dell’umanità, al di là di confini spaziali, temporali, sociali.[4]»
Il Satyricon di Fellini è un testo cinematografico ricolmo di simbologie oniriche che rimandano alla decadenza del mondo d'oggi. Ad esempio i personaggi vivono in un mondo di rovine: Encolpio e il poeta Eumolpo visitano ad un certo punto un museo. Esso contiene opere d’arte classica già antiche, deteriorate dal tempo, e contemporaneamente sullo sfondo alcuni personaggi sfilano su un carrello come in una messa in scena da teatro di posa. Ed ancora, su una spiaggia si vedono alcuni cannibali divorare il corpo di un poeta, mettendo in scena metaforicamente una sorta di percorso regressivo, archetipico, in cui il cannibalismo è il simbolo del ritorno ad una fase primitiva, animalesca dell'uomo. Attraverso il materiale onirico, Fellini vuole mettere in scena gli incubi e le perversioni inconfessate della società archetipica che descrive, colorando il tutto di una forte patina dionisiaca, irrazionale. La critica sulle prime sembrò ignorare tali significati profondi ed accusò la mancanza di continuità del film ed il fatto che non si interessi di problemi sociali.
Curiosità
- Tra le comparse utilizzate nel film c'è anche Renato Fiacchini, in arte Renato Zero.
- Nel ruolo del Minotauro, Luigi Montefiori, che di lì a qualche anno sarà presenza fissa in polizieschi all'italiana e spaghetti-western, con il nome d'arte di George Eastman.
- Nell'episodio della Matrona di Efeso Fellini mette il soldato a guardia di un impiccato mentre nel libro di Petronio si parla di un crocefisso, cosa che ha fatto pensare a molti che l'Arbitro volesse fare una satira della Resurrezione di Cristo dandone una spiegazione in chiave comica (ribaltando la tesi del filologo Erwin Preuschen che sosteneva che il Vangelo di Marco si rifacesse proprio al Satyricon).
da: http://www.enciclopediadeldoppiaggio.it/
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