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- Pubblicato Domenica, 22 Settembre 2019 07:00
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50 ANNI SENZA JUDY GARLAND Il mago di Oz (1939) |
Dalla soglia della casa sopravvissuta alla violenza del tornado, il Mondo di Oz si squaderna in un tripudio di verdi praticelli, placide ninfee, un ponticello lezioso, dolci montagne sul fondo. La macchina da presa accompagna lo stupore con un solenne movimento. Dorothy ha senz’altro ragione: “Toto, ho l’impressione che non siamo più nel Kansas”. L’abbiamo visto, il Kansas, nella prima inquadratura del Mago di Oz: una strada sterrata, circondata da un niente in bianco e nero, che conduce verso un orizzonte immobile e piattissimo. Anche l’autore delle fortunatissime pagine da cui il film è tratto, L. Frank Baum, in poche righe, ci fa intendere che lì tutto è grigio, pure le gote della zia.
Non ci è dato sapere se Dorothy sia l’unico personaggio variopinto, di certo è la sola a poter ambire a un paesaggio diverso. A questo riguardo, è ancor più chiaro il film: Somewhere over the Rainbow suona come l’invocazione a un mondo che irradi garrulo Technicolor. A Oz i colori sono troppo chiassosi, lussureggianti, acidi per sembrarci veri, così come i matte paintings che fingono immensi paesaggi in lontananza. Ci vuol poco, oggi, a definirli camp. Eppure il trucco funziona e il pubblico può condividere l’estasi di Dorothy, per quanto anche all’epoca non fosse nuovo né ai deliri scenografici del musical né al fulgore del Technicolor.
È impossibile attribuire i meriti del film a un solo mago: Il mago di Oz, anzi, è un “testo senza autore” (Salman Rushdie). L’unica firma che lo marchia a fuoco è quella della MGM. Alla produzione si divisero Mervyn LeRoy e Arthur Freed (sulla carta assistente), quest’ultimo alla sua prima esperienza in una carriera che lo porterà a capo dei maggiori musical della casa. Non è chiaro a chi per primo venne l’idea, per nulla scontata se si considera che, fino ad allora, Oz al cinema non aveva sfavillato (una casa di produzione messa in piedi da Baum per adattare i suoi romanzi chiuse alla svelta, e la versione del 1925 con Oliver Hardy nel costume dell’Uomo di Latta fece poco clamore).
Di certo un buon impulso all’impresa fu assestato dal successone nel 1937 di Biancaneve e i sette nani. Le illustrazioni di William Wallace Denslow per la prima edizione del romanzo, poi, fornirono più che uno spunto iconico.
Furono quattro i registi che parteciparono al progetto: André de Toth (due settimane per niente), George Cukor (tre giorni, abbastanza per consigliare di togliere a Dorothy l’acconciatura bionda), Victor Fleming (quattro mesi, prima di correre sul set di Via col vento) e King Vidor (dieci giorni per le scene del Kansas). Addirittura undici gli sceneggiatori a vario titolo coinvolti. E la gestazione travagliata del film è confermata dai centotrentasei giorni di riprese, tra infelici incidenti di percorso. Ma a dispetto di un così ricco campionario di mani e cervelli, Il mago di Oz è tutt’altro che dispersivo e qua e là raffazzonato: tira invece dritto verso nuovi personaggi, regni e colori, con lo stesso passo saltabeccante dei suoi eroi, per fermarsi ogni tanto a esercitarsi nel canto o nel vaudeville. In fondo, oltre tanto arcobaleno, c’è una morale poco lampante. “Nessun posto è bello come casa mia”, comprende infine Dorothy. Ma tutto il resto sembra smentire apertamente il desiderio di un Kansas monocromo, dal quale è stato bello svegliarsi per prendere in mano il proprio destino di ragazza, senza adulti inadeguati tra i piedi, con la consapevolezza delle proprie virtù.
Il mago di Oz fu troppo costoso per ripianare subito i costi, anche se il pubblico accorse e qualche Oscar marginale arrivò (miglior canzone, suono e premio speciale a Judy Garland). La sua enorme risonanza fu però un fenomeno soprattutto televisivo: a partire dal 1956 il film diventerà un appuntamento domestico fisso e, conseguentemente, una “American institution” (A. Harmetz).
Se il mondo di Oz boccheggia nei vari film che l’hanno in seguito rivisitato, si dimostra fertilissimo quando penetra come suggestione o incubo, più o meno latente, in contesti a prima vista lontani: Zardoz (John Boorman, 1974), Alice non abita più qui (Martin Scorsese, 1974), Cuore selvaggio (David Lynch, 1990), fino al magma del romanzo L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon.
(Andrea Meneghelli, Enciclopedia del Cinema Treccani, 2004)
Le sequenze del Kansas erano imbibite color seppia. Erano girate in bianco e nero; poi la pellicola veniva immersa in un liquido color marrone per attenuare i contrasti del bianco e nero. Il resto del film era a colori. E il colore era ancora un mare inesplorato. Creare il design della Città di Smeraldo era, in un certo senso, più facile che trovare la tinta appropriata per la Strada di mattoni gialli. E almeno era meno noioso. Trovare una tinta che non facesse sembrare verde la Strada di mattoni gialli era compito di Randall Duell, e gli prese all'incirca una settimana. “Il film a colori non era ancora stato perfezionato all'epoca”, dice Duell. “Dovevamo fare un sacco di test ed esperimenti con la pellicola per ottenere i colori da ricreare correttamente. Iniziavamo a riprendere un set una settimana o due prima che fosse utilizzato. Dovevamo fare test cromatici per ogni set non solo per le parti dipinte ma anche per gli sfondi. Una parte della Strada di mattoni gialli era un fondale dipinto. Se non fosse stato dipinto e illuminato correttamente, sarebbe sembrato un fondale dipinto”.
(Aljean Harmetz, The Making of The Wizard of Oz, Alfred A. Knopf, New York 1981)
Uno degli elementi per cui Il mago di Oz viene ricordato è Over the Rainbow, cantata nel film da Judy Garland su musiche di Harold Arlen e parole di A.Y. Harburg, che vinse l'Oscar per la migliore canzone e nel 2001 è stata eletta 'Canzone del secolo' dalla Recording Industry Association of America e dalla National Endowment for the Arts (al secondo posto figurava White Christmas di Irving Berlin). Judy Garland la inserì nel proprio repertorio senza mai abbandonarla, fino alla morte nel 1969. Così scriveva in una lettera ad Arlen: "Over the Rainbow è diventato parte della mia vita. È così simbolica dei sogni e dei desideri di tutti che sono sicura che è per questo che alcune persone hanno le lacrime agli occhi ascoltandola. L'ho cantata migliaia di volte ed è ancora la canzone che ho nel cuore".
La fortuna della canzone giunge quasi ininterrotta fino ai nostri giorni: non si contano le cover, le versioni in varie lingue del mondo, compreso l'esperanto, e la sua presenza in film (da Scandalo a Philadelphia a Insonnia d'amore, ma anche L'abominevole dottor Phibes) e serie televisive. Dal 2004, una versione per ukulele dell'hawaiano Israel Kamakawiwo, in medley con What a Wonderful World, ha nuovamente scalato le classifiche.
La canzone è poi diventata un simbolo delle speranze e della liberazione del mondo gay. Judy Garland, infatti, è una delle icone gay dello spettacolo del XX secolo: leggenda vuole che i moti di Stonewall, tra la comunità omosessuale e la polizia, avvenuti poche giorni dopo il funerale dell'attrice, fossero in qualche modo collegati a quel momento di lutto e agitazione collettiva. Non sorprendono allora i titoli di alcuni volumi recenti, come Over the rainbow: lesbian and gay politics in America since Stonewall (1995), a cura by David Deitcher, Over the rainbow: queer children's and young adult literature (2011), a cura di Michelle Ann Abate e Kenneth Kidd, e Over the rainbow city: towards a new LGBT citizenship in Italy (2015) di Fabio Corbisiero.
Nella letteratura italiana, infine, c'è un illustre omaggio alla canzone. Si tratta di Una questione privata di Beppe Fenoglio, uno dei capolavori della narrativa italiana del Novecento, in cui la canzone ha un ruolo centrale:
“Ma un giorno, erano soli, Fulvia caricò il fonografo con le sue mani e mise Over the Rainbow, 'Avanti, balla con me'. Lui aveva detto, forse aveva gridato di no. 'Devi imparare, assolutamente. Con me, per me. Avanti'. 'Non voglio imparare… con te'. Ma già lo teneva, lo spostava nello spazio libero e spostandolo ballava. 'No!' protestò lui, ma era così sconvolto che non riusciva nemmeno a tentare di divincolarsi. 'E soprattutto non con quella canzone!' Ma lei non lo lasciava e lui dovette badare a non inciampare e rovinarle addosso”.
Una questione privata (pubblicata postuma da Garzanti nel 1963 con altri racconti sotto il titolo Un giorno di fuoco) è una bellissima storia d’amore, una delle più intense della narrativa del Novecento. Come tutte le grandi storie d’amore è di una semplicità disarmante: nel corso della lotta partigiana, Milton, studente universitario di Alba, è perdutamente innamorato di Fulvia, una ricca ragazza sfollata nelle Langhe per sfuggire ai bombardamenti di Torino. Timido, impacciato nei modi, convinto di non essere bello, la pelle spessa e pallidissima, Milton la corteggia scrivendole lettere appassionate, traducendo per lei brani e versi dall’inglese, coinvolgendola in discorsi 'seri'. Lei è attratta da quel ragazzo così diverso dagli altri e ha gioco facile nel simboleggiargli l’altrove: la città, la modernità dei costumi, persino l’America. La loro canzone è Over the Rainbow, interpretata da Judy Garland e tratta dal Mago di Oz (1939). Ed è proprio questa hit – il film di Victor Fleming sarebbe uscito in Italia solo dopo la guerra – a ribaltare i piani, a disgregare lentamente il manto di retorica sulla Resistenza, a esaltare un’avventura esistenziale.
(Aldo Grasso, “Corriere della Sera”, 6 ottobre 2003).
da: http://distribuzione.ilcinemaritrovato.it/per-conoscere-i-film/il-mago-di-oz/over-the-rainbow/
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Scheda |
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TITOLO ORIGINALE | The Wizard of Oz | ||
LINGUA ORIGINALE | Inglese | ||
PRODUZIONE | Stati Uniti d'America | ||
ANNO | 1939 | ||
DURATA | 101' | ||
COLORE | Technicolor | ||
RAPPORTO | 1.37 : 1 | ||
GENERE | Musicale, avventura, commedia, fantastico | ||
REGIA | Victor Fleming George Cukor, Mervyn LeRoy, Norman Taurog, King Vidor (non accreditati) |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
Primo ridoppiaggio (1982)
Secondo ridoppiaggio (1985)
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SOGGETTO | dal romanzo di L. Frank Baum | ||
PRODUTTORE | Mervyn LeRoy Metro-Goldwyn-Mayer |
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SCENEGGIATURA | Noel Langley, Florence Ryerson, Edgar Allan Woolf, (non accreditati) Irving Brecher, William H. Cannon, Herbert Fields, Arthur Freed, Jack Haley, E.Y. Harburg, Samuel Hoffenstein, Bert Lahr, John Lee Mahin, Herman J. Mankiewicz, Jack Mintz, Ogden Nash, Robert Pirosh, George Seaton, Sid Silvers | ||
FOTOGRAFIA | Harold Rosson | ||
MONTAGGIO | Blanche Sewell | ||
EFFETTI SPECIALI | A. Arnold Gillespie | ||
SCENOGRAFIA | Noel Langley | ||
MUSICHE | Harold Arlen, Herbert Stothart | ||
COSTUMI | Adrian | ||
TRUCCO | Jack Dawn | ||
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 23:00
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MARLENE DIETRICH E IL SUO PIGMALIONE L'angelo azzurro (1930) |
Un severissimo professore del ginnasio, Immanuel Rath (Emile Jennings) scopre che i suoi alunni ronzano intorno a Lola-Lola (Marlene Dietrich), cantante e ballerina dai costumi disinvolti che si esibisce nell’equivoco "Angelo azzurro".
Deciso di prenderli in castagna vi si reca ma incoccia nella bellissima donna di cui perdutamente si innamora. La sua caduta sarà veloce e inesorabile.
"L’Angelo azzurro" è considerato il primo film sonoro della gloriosa cinematografia tedesca.
È un fatto che questa aveva già dato il meglio di sé con il muto e il passaggio al sonoro si stava rivelando molto problematico non solo dal punto di vista tecnico ma anche da quello puramente fonetico: la lingua che fu di Holderlin e Goethe sul grande schermo non attecchiva, muoveva gli spettatori al riso, troppo dura e indomesticabile.
Non a caso fu chiamato dagli Stati Uniti Sternberg (il "von" nobiliare è posticcio) che infatti mise in scena non il primo in assoluto ma il primo film sonoro di successo.
Sternberg si era costruito un’ottima reputazione a Hollywood con "Underworld" ("Le notti di Chicago", 1927, comunque muto) ma ancora più decisiva fu la sua origine viennese, con la sua cadenza più dolce dell’aspro tedesco germanico che il raffinato Josef trovò il modo di imbrigliare, come ci mostra una delle più esilaranti sequenze del film, quando il professor Rath schiaffa una matita tra i denti di un alunno per addolcire i suoni palatali.
"L’Angelo azzurro" porta anche alla ribalta un nome fino ad allora, se non sconosciuto, ignorato, quello di Marlene Dietrich non più giovanissima (ha 28 anni) e neanche di primo pelo (ha già girato 17 film) ma che non era riuscita, fino a quel momento, a rimanere impressa nella mente di alcun produttore, regista e forse neanche spettatore.
Plasmata come una cera, Sternberg avvia con questo film un sodalizio artistico-sentimentale che si dipana tra alti e moltissimi bassi lungo otto lungometraggi in cinque anni, dal 1930 al 1935.
Fa una certa impressione ricordare che ne "L’angelo azzurro" il 1935 è indicato esattamente come l’annus horribilis, quello in cui si completa la disfatta del professor Rath, una sorta di alter ego di Sternberg. Non in questo caso però: il regista, ormai ricchissimo, dopo la rottura con Marlene si allontana dai tournage cinematografici (complice una inesorabile sequela di fiaschi commerciali) e si rifugia nella sua casa dorata a collezionare oggetti e ninnoli di arte moderna, assecondando quel suo gusto "decorativo" se non vagamente kitsch con cui i suoi detrattori lo avevano sempre sbeffeggiato, a cominciare da Lubitsch.
"L’angelo azzurro" è quindi un film nevralgico, un crocevia: Weimar sta per cedere a Hitler; il sonoro soppianta definitivamente il muto (nonostante la resistenza quasi eroica di Murnau e Chaplin); l’espressionismo si gioca le sue ultimissime carte: legato indissolubilmente al muto, nel nostro film si arrocca negli esterni, in quei brevi tratti che portano dalla casa di Rath al ginnasio e da questo all’Angelo azzurro, lungo le cui strade il campanile rintocca le ore e le finestre sono sempre sigillate come se fosse in atto una guerra tra il mondo dentro e il mondo fuori e fosse quest’ultimo, accartocciato nelle deformazioni espressioniste, a costringere i protagonisti in quegli anfratti coperti dove sconteranno il loro destino.
Così, come il film si apre su un uccellino in gabbia morto, allo stesso modo Unrat (come lo chiamano i suoi studenti, "spazzatura") non trova mai scampo al magnetismo di Lola e inizia a girare a vuoto tra cantine e boudoir, palcoscenico e palchetti, salvo quando è ormai troppo tardi e finalmente libero corre, corre verso la sua antica cattedra di professore d’inglese sulla quale si accascia.
Lo spazio recitativo è angosciosamente intasato, pieno di cose, carabattole, cordami, trucchi, scale… un caos che repelle ma ancor più affascina l’austero professore totalmente impreparato a un novecento nel quale solo in quel momento si rende conto di essere. Non a caso il pretesto letterario del film è il romanzo di Heirich Mann (fratello del più celebre Thomas) che lo aveva ambientato nella Germania guglielmina, ottocentesca: Rath infatti è uno stereotipo di certo autoritarismo così come ce lo hanno tramandato i grandi romanzieri dell’epoca, a cominciare da Robert Musil ne "I turbamenti del giovane Torless". È un peccato che la psicoanalisi post-freudiana e un non sempre acuto Siegfried Kracauer abbiano sintetizzato la parabola del professore come l’esercizio di un autoritarismo considerato sadismo e/o impotenza sessuale. È un peccato perché il salto temporale azzera in realtà ogni valore alle analisi.
Spazi ingombri, si diceva.
Rath, grassoccio e azzimato, vi si muove con grande fatica e tutta la sua vivacità sta nello sguardo che indirizza i movimenti della cinepresa, uno sguardo inquieto, febbrile e anche bellicoso, prima in cerca dei suoi studenti poi della sua amata infrattata con Mazeppa, un bellimbusto italiano.
I movimenti sono impercettibili perché gli spazi sono ridotti, eppure in quel microcosmo infernale ci sono tutte le risposte che si cercano. Forse la più bella sequenza del film è proprio quella del tradimento di Lola, quando Rath, vestito da pagliaccio ma luciferino come il diavolo del Faust di Murnau (l’attore è lo stesso in effetti) cerca l’amata dall’alto del palcoscenico entro cui si sta esibendo e la trova, appena dietro il sipario, schiacciata a terra dalla foia del bellimbusto e dalla cinepresa che le si addossa in plongée, che la fissa sul pavimento lurido che mette in valore la sua faccia diafana e gli occhi spalancati, terrorizzati e colpevoli su cui l’illuminazione spara i suoi mille watt come in una foto segnaletica.
È l’unica inquadratura in cui Lola è ripresa quasi in primo piano.
In tutte le altre è stata trattata al pari di un qualsiasi oggetto di dècor, come ciascuna delle carabattole che ne intralciavano il trucco e le esibizioni.
È il corpo di Lola che genera desiderio e sensualità, le sue gambe atletiche e generosamente nude, le sue mutandine di pizzo, le sue pose plastiche che la rendono statuaria nella forma e statua nel comportamento, completamente disinteressata al bene e al male, spsicologizzata. Se ne ricorderà Godard ne "Le Mèpris" quando volle plasmare la recitazione di Brigitte Bardot (ma non con gli stessi risultati).
È indubbio che la sensualità che Marlene impone nel nostro film non troverà più il paio in quelli successivi. L’interesse della regia si sposta sul volto, inquadrato come una carta geografica di grande impatto emozionale ("l’immagine-affetto") ma sessualmente neutra o al massimo ambigua come un primo piano di Greta Garbo.
Non è un caso che tuttora Marlene sia una sorta di simbolo dell’androginia (nonché icona-gay) e che in molti sono sicuri che abbia recitato sempre coi pantaloni.
È un fatto che Sternberg fatti salvi il precedente "Underworld" e il successivo "Morocco" ("Marocco", 1930) non ritrovò mai più la prodigiosa sintesi de "L’angelo azzurro" che procede con un montaggio vorticoso ma sempre intelligibile. Partito al piccolo trotto, si preoccupa in primis di definire i personaggi e le loro psicologie, impiegando la prima metà del film per incasellarli tutti. La seconda metà diventa invece una sarabanda vertiginosa che grazie alle informazioni propalate nella prima ci aiuta a operare tutti i salti logici e temporali che ci avviano verso un finale sì fatale e naturale ma quasi a sorpresa.
Di grande aiuto a Sternberg, come scritto, fu la sua esperienza americana col sonoro, una banda che usa con molta accortezza e che usa come raccordo (i rintocchi del campanile), come simbolo in quelle rime continue di cingettii, coccodè e chicchirichì che sono il vero fil rouge della storia e infine come leit-motiv, nella canzone "Ich bin die fesche Lola" cantata da Marlene con la sua caratteristica voce bassa, in quella celeberrima sequenza (vedi fotografia 1) in cui si siede su di un barile e mette in mostra le gambe.
recensione di Pietro S. Calò
da: Ondacinema.it
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Scheda |
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TITOLO ORIGINALE | Der blaue Engel | ||
PRODUZIONE | Germania | ||
ANNO | 1930 | ||
DURATA | 99' | ||
COLORE | b/n | ||
RAPPORTO | 1,20:1 | ||
GENERE | Drammatico, musicale | ||
REGIA | Josef von Sternber |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
Doppiaggio originale (1931):
Ridoppiaggio (1950):
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SOGGETTO | Heinrich Mann (romanzo) |
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CASA DI PRODUZIONE | UFA |
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SCENEGGIATURA | Carl Zuckmayer, Karl Vollmöller, Robert Liebman | ||
FOTOGRAFIA | Günther Rittau, Hans Schneeberger | ||
MONTAGGIO | Sam Winston Walter Klee(per la versione inglese) | ||
MUSICHE | Frederick Hollaender, Wolfgang Amadeus Mozart, Renzo Rossellini (musiche per l'edizione italiana) | ||
SCENOGRAFIA | Otto Hunte Emil Hasler (assistente) |
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COSTUMI | Tihamer Varady | ||
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 22:00
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MARLENE DIETRICH E IL SUO PIGMALIONE Marocco (1930) |
La cantante di cabaret Amy Jolly (Marlene Dietrich), amante di un ricco pittore, arriva in una città del Marocco spagnolo dove è di stanza la Legione Straniera, riscuotendo grande successo in un frequentato cabaret. Da tutti corteggiata, la donna si innamora invece di un semplice legionario, Tom Brown (Gary Cooper), amante della moglie del comandante della guarnigione. La donna, per vendicarsi di Tom, convince il marito ad affidargli una pericolosa missione nel deserto. Amy decide allora di abbandonare il suo protettore e di seguire scalza i legionari nel Sahara pur di stargli vicina.
Il melodramma esotico tratto da un romanzo di Benno Vigny è il primo film americano della coppia von Sternberg-Dietrich, e con i suoi tratti onirici divenne il prototipo del cinema hollywoodiano barocco e antirealistico, grazie all'inverosimiglianza dell'ambientazione (un Sahara palesemente ricostruito in studio) che assume connotati marcatamente simbolici. Il mito di "femme fatale" della Dietrich (per questo ruolo candidata all'Oscar) viene controbilanciato dal mito maschile dell'uomo desiderato ma inafferrabile qui impersonato da Gary Cooper.
Piero Di Domenico
da: www.mymovies.it
Secondo dei sette film del sodalizio artistico tra Marlene Dietrich e il regista Josef von Sternberg. Adattamento del romanzo Amy Jolly di Benno Vigny, in cui von Sternberg, muovendosi tra le maglie di un soggetto tutto sommato banale, riesce a dar vita a un prodotto decisamente interessante e originale grazie a una intelligente e sofisticata messa in scena.
Così il ruolo di femme fatale che la Dietrich aveva interpretato ne L'angelo azzurro (1930) viene rimesso in discussione e alla diva vengono fatti indossare abiti maschili in una celeberrima scena in cui il personaggio di Amy bacia un'altra donna, una delle prime sequenze saffiche della storia del cinema. In questo modo il regista mette in evidenza tutte le ambiguità e le contraddizioni del desiderio, esplicitando visivamente i turbamenti sentimentali e le complessità psicologiche dei protagonisti attraverso un impianto immaginifico che unisce la dimensione barocca a quella intimista (attraverso un sapiente uso dell'illuminazione rivelatrice di stati d'animo), spaziando dall'esotismo all'onirico.
Ottima alchimia tra la Dietrich e Gary Cooper, anche se il migliore del cast è Adolphe Menjou. La sequenza finale, essenziale e potentissima, è stata omaggiata da Bernardo Bertolucci ne Il tè nel deserto (1990).
da: https://www.longtake.it
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Scheda |
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TITOLO ORIGINALE | Der blaue Engel | ||
LINGUA ORIGINALE | Inglese, francese, spagnolo | ||
PRODUZIONE | Stati Uniti d'America | ||
ANNO | 1930 | ||
DURATA | 91' | ||
COLORE | b/n | ||
RAPPORTO | 1,20:1 | ||
GENERE | Sentimentale, drammatico | ||
REGIA | Josef von Sternberg Henry Hathaway (regista 2a unità, non accreditato) |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | dal lavoro teatrale Amy Jolly di Benno Vigny |
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CASA DI PRODUZIONE | Paramount Pictures (con il nome Paramount Publix Corporation) |
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SCENEGGIATURA | Jules Furthman | ||
FOTOGRAFIA | Lee Garmes e, non accreditato, Lucien Ballard | ||
MONTAGGIO | Sam Winston (non accreditato) | ||
MUSICHE | Octave Crémieux, Karl Hajos (non accreditato) | ||
SCENOGRAFIA | Hans Dreier | ||
COSTUMI | Travis Banton (non accreditato) | ||
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 21:00
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MARLENE DIETRICH E IL SUO PIGMALIONE Shangai Expess (1932) |
Sul treno Pechino-Shanghai, in una Cina sconvolta dalla guerra civile, salgono alcuni viaggiatori apparentemente rispettabili e due malfamate avventuriere, la bianca Shanghai Lily e la cinese Hui Fei, la cui presenza fa scandalo. Il treno ospita in realtà, sotto mentite spoglie di commercianti e di ufficiali, una dubbia umanità di falsari, disertori e trafficanti d'oppio. Preso posto tra di loro, il capitano medico Harvey riconosce in Shanghai Lily la donna che cinque anni prima aveva lasciato (e che in realtà ama ancora). Durante il viaggio, il treno viene fermato due volte: prima dai governativi, che catturano una spia dei ribelli, poi dai ribelli stessi, guidati dal loro capo, l'eurasiatico Henry Chang, che già si nascondeva tra i passeggeri del treno.
I ribelli vogliono trattenere come ostaggio una personalità importante da offrire al governo in cambio della spia catturata. La scelta cade sul dottor Harvey, lo scambio è organizzato e accettato, ma al momento di rilasciarlo Chang minaccia di far accecare il prigioniero se Shanghai Lily non partirà con lui. Per amore di Harvey, la donna accetta, ma Hui Fei riesce a introdursi nella camera di Chang e a pugnalarlo. Nella confusione, tutti riescono a risalire sul treno, che riparte per Shanghai. Harvey seguita a disprezzare Shanghai Lily, che secondo lui era pronta ad andarsene con Chang, ma poi capisce la verità quando il reverendo Carmichael gli rivela di aver visto Lily, la notte prima, che pregava per lui. I due, alla stazione di Shangai, riallacciano i fili d'un amore che in realtà non si era mai interrotto.
Melodramma d'avventure esotiche, Shanghai Express è il terzo film hollywoodiano di Marlene Dietrich con Josef von Sternberg alla Paramount, dopo Morocco (Ma-rocco, 1930) e Dishonored (Disonorata, 1931). Lo scenario è quello di una Cina del tutto artificiale, ricostruita in studio, mentre il percorso del treno Pechino-Shanghai si snoda attraverso i binari d'una ferrovia dismessa nei pressi di Chatswood, nella San Fernando Valley, attorno alla quale von Sternberg incarica lo scenografo Hans Dreier di costruire una città 'cinese', in modo di lasciare appena lo spazio per il passaggio del treno e per la folla vociferante che vi si accalca intorno, si urta, cercando di salire o spostandosi all'ultimo momento con i suoi animali, in una confusione pittoresca.
L'orrore del vuoto, l'avversione di von Sternberg per ogni inquadratura che non sia colma fino all'inverosimile, arrivano qui al parossismo. Travis Banton, da parte sua, veste Shanghai Lily di piume, prima nere, poi bianche (sulla scia della Evelyn Brent di Underworld ‒ Le notti di Chicago, 1927, detta appunto 'Feathers') e d'una incredibile veletta, che da un lato scherma, rendendolo ancora più misterioso, il volto di Marlene, e dall'altro sembra quasi connotare una situazione di lutto (per un amore perduto?).
"Chi è Shanghai Lily?", chiede il capitano Harvey. Qualcuno risponde: "È una famosa 'costiera'". "E che vuol dire 'costiera'?". "Una che fa la vita lungo la costa". Dunque Marlene si è messa a 'fare la vita', acquisendo il nome d'arte di Shanghai Lily (il suo vero nome è Magdalen), dopo aver lasciato Harvey, o dopo che Harvey ha lasciato lei, per incomprensione e orgoglio. L'orgoglio è il peccato capitale di Harvey, altra figura in cui si adombra il personaggio stesso di von Sternberg nel suo rapporto con Marlene, e quasi fino alla fine rischierà di non capire la sublimità del sacrificio cui la donna era disposta per salvarlo. Ma qui Marlene non è sola: tra le ragazze di vita, ha una collega cinese degna di lei, pronta a uccidere (per patriottismo? per vendetta?) il malvagio Chang e a funzionare dunque da dea ex machina.
Sole nel loro scompartimento, schivate da tutti gli altri passeggeri bianchi, uomini (per ipocrisia) e donne (per moralismo bigotto), fin dall'inizio le due donne si contrappongono al resto della composita fauna del treno, che comprende del resto anche personaggi ben più squallidi (un "onesto commerciante" che commercia in diamanti falsi, un ufficiale francese che in realtà è un disertore, un tedesco trafficante d'oppio ecc.). Il treno è contemporaneamente mezzo di trasporto, bazar, grand hotel, postribolo e veicolo di salvezza su cui si fugge dopo la parentesi melodrammatica e sanguinosa (in fondo, Chang è una specie di Scarpia cinese, rispetto al quale Marlene è una Tosca che si lascia sostituire da un alter ego orientale per vibrare la fatidica pugnalata). La regola hollywoodiana del lieto fine esige una riconciliazione tra Shanghai Lily e Harvey e questo avviene all'arrivo a Shanghai, dopo che il treno, compiendo il viaggio, ha tracciato anche una vera e propria parabola esistenziale: una volta scesi in stazione, Lily compra un orologio e lo regala al rigido e compassato Harvey come dono ironico da non utilizzare troppo, in nome della fantasia.
La storia, come si vede, ricalca (ma anche anticipa) quella di tanti melodrammi esotici, i personaggi sono fissati ai loro stereotipi: ma von Sternberg dimostra qui, ancora una volta, quale potere di trasfigurazione e astrazione possa avere il cinema nel costruire, secondo modalità rigorosamente artificiali, le figure dell'immaginario che ne hanno sempre alimentato il fascino. Shanghai Express rappresenta dunque il trionfo dello studio system e uno dei massimi momenti di trasfigurazione feticistica del corpo della Diva.
Benché von Sternberg, con questo film, fosse nominato per la migliore regia, l'Oscar, nel 1932, lo vinse solo Lee Garmes, per la migliore fotografia. In realtà, von Sternberg e Garmes avevano messo a punto insieme, per il viso della Dietrich, un complesso sistema di illuminazione, basato su varie lampade, garze, velatini, schermi fuori scena (e in scena), in modo di mettere in ombra il mento, e velare le gote, come scrive Giovanni Buttafava, "in sfumature incantate".
da: http://www.treccani.it
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Scheda |
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TITOLO ORIGINALE | Shangai Express | ||
PRODUZIONE | Stati Uniti d'America | ||
ANNO | 1932 | ||
DURATA | 80' | ||
COLORE | Black and White | ||
RAPPORTO | 1,37 : 1 | ||
GENERE | Drammatico | ||
REGIA | Josef von Sternberg |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | Harry Hervey (racconto) |
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CASA DI PRODUZIONE | Paramount Pictures (con il nome Paramount Publix Corporation) |
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SCENEGGIATURA | Jules Furthman | ||
FOTOGRAFIA | Lee Garmes, James Wong Howe (non accreditato) | ||
MONTAGGIO | Frank Sullivan | ||
MUSICHE | W. Franke Harling, Rudolph G. Kopp, Karl Hajos, John Leipold | ||
SCENOGRAFIA | Hans Dreier | ||
COSTUMI | Travis Banton |
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 20:00
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MARLENE DIETRICH E IL SUO PIGMALIONE L'imperatrice Caterina (1934) |
L'innocente Sofia Federica (Marlene Dietrich), figlia di un principe prussiano, sposa il granduca Pietro III (Sam Jaffe), futuro zar infantile, mentecatto e cagionevole. Sofia, in breve tempo, si trasforma in una fredda e spregiudicata calcolatrice assetata di potere, si innamora del conte Alessio (John Lodge), fa uccidere il marito e si fa proclamare imperatrice di tutte le Russie con il nome di Caterina II, detta la Grande.
Il film in cui il barocchismo di von Sternberg raggiunge livelli decisamente radicali e diventa mezzo espressivo attraverso cui descrivere la potenza dell'erotismo come strumento di manipolazione e di esercizio dell'autorità. Il potere sessuale e quello politico sono quindi strettamente legati tra loro, Caterina usa la propria carica sensuale per affermarsi e rivendicare il proprio ruolo in un mondo crudele e corrotto, mentre la narrazione è permeata da simbolismi arditi e piuttosto espliciti che manifestano il ruolo preponderante dell'eros e ne mettono in evidenza gli aspetti più seducenti e ambigui. Le scenografie eccessive ed espressioniste, la stilizzazione estrema, la cura maniacale dell'illuminazione, la messa in scena visivamente magniloquente e caratterizzata da complessi (e insoliti per l'epoca) movimenti di macchina permettono a von Sternberg di confezionare un'opera astratta e sperimentale, delirante e vagamente onirica, riflessione sulla ferocia della natura umana, predisposta alla prevaricazione e a nascondere tale inclinazione dietro una facciata di pomposa artificiosità. Memorabili la scena del matrimonio di Caterina, il successivo banchetto nuziale e la sequenza dell'assalto al palazzo. Von Sternberg curò personalmente il montaggio, compose alcune delle musiche presenti nel film e diresse l'orchestra che le eseguì. Il film della coppia Sternberg-Dietrich più estremo e meno fortunato dal punto di vista commerciale.
da: https://www.longtake.it
Magnifica la prima parte che introduce nello scenario barocco della corte di Russia: un debordante, indimenticabile profilmico di statue mostruose (quella del trono ad aquila, quelle “assorte” della sala del consiglio, i porta-candele e l’organizzazione spaziale del luogo della cerimonia nuziale) e locali al lume di candela.
Poi c’è il fascino di personaggi perversi (l’autoritaria imperatrice-madre, suo figlio dal sorriso malefico) e, più in generale, dello spirito russo dipinto come rude, spartano e incolto. Un universo delirante che accoglie nelle sue braccia macabre il candore di una fanciulla romantica usata come animale da riproduzione, e lo corrompe trasformandola in maliarda mangiauomini assetata di potere.
Le premesse per un film maledetto e di culto ci sono tutte, compresa la maestria del regista nel dare corpo nell’espressionismo ad una favola nera e malefica con le scenografie, le musiche (l’opera è ancora molto legata agli stilemi del cinema muto, fra didascalie storiche e predilezione del figurativo sul dialogo), il ricorrente uso di sovrimpressioni che, in apertura, regalano un incubo materializzato in torture agghiaccianti. Purtroppo, invece che mantenere le posizioni o crescere, il film si appiattisce sempre più nel tipico, epidermico melodramma sternberghiano, le deformazioni del racconto non sono più riscattate dal piano onirico e allucinato ma si adagiano su semplicistici intrighi sentimentali e grossolane enfasi.
Si spezza l’incanto e ciò che ammaliava arriva a stuccare, dalle infinite variazioni sulla wagneriana “cavalcata della Valchirie” al tipo di recitazione di Marlene Dietrich, più adatto ad intrattenitrice da night club che a nobile di classe per quanto corrotta (sorprende, invece, nei panni dell’ingenua sentimentale), dalla drammaturgia che, dopo aver imbastito un lungo prologo, pare non approdare mai al nucleo dell’intreccio, alla regia che non chiude in modo soddisfacente le premesse romantiche e decadenti, e s’arrende ad un finale tanto “estraneo” quanto difettoso (un’incoronazione che non corona nulla di quanto visionato fin lì).
da: https://www.spietati.it/limperatrice-caterina
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Scheda |
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TITOLO ORIGINALE | The Scarlet Empress | ||
LINGUA ORIGINALE | Inglese | ||
PRODUZIONE | Stati Uniti d'America | ||
ANNO | 1934 | ||
DURATA | 104' | ||
COLORE | Black and White | ||
RAPPORTO | 1.37 : 1 | ||
GENERE | Storico, biografico, drammatico | ||
REGIA | Josef von Sternberg |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | Caterina II di Russia (diari) |
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CASA DI PRODUZIONE | Paramount Pictures |
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SCENEGGIATURA | Manuel Komroff | ||
FOTOGRAFIA | Bert Glennon | ||
MONTAGGIO | Josef von Sternberg e Sam Winston (non accreditati) | ||
SCENOGRAFIA | Hans Dreier (non accreditato) | ||
COSTUMI | Travis Banton (non accreditato) Eugene Joseff (gioielli, non accreditato) |
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- Dettagli
- Categoria: Cinema
- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 19:00
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LA LUNA VISTA DALLA TERRA Uomini veri (1983) |
(...) Conosciamo meglio il film di Philip Kaufman del 1983 con nel cast un manipolo di grandi attori: Scott Glenn, Ed Harris, Sam Shepard, Dennis Quaid. Pur non facendo miracoli al botteghino, il film possedeva qualcosa che oggi manca a molti film di Hollywood: il racconto di un pezzo di storia americana, l’innocenza e l’ingenuità di un’epoca, quando piloti e astronauti erano considerati eroi, dei miti che Damien Chazelle nel suo film ha provato in qualche misura a resuscitare e che The First ha mancato totalmente, sprofondando nella noia assoluta dopo una manciata appena di episodi.
Uomini Veri, regia di Philip Kaufman, e durata di oltre tre ore, con un antecedente di riguardo che potrebbe essere 2001: Odissea Nello Spazio di Kubrick, ha l’etichetta appiccicata addosso di cult per via del bestseller di Tom Wolfe, La Stoffa Giusta (Mondadori). Un romanzo che descriveva il mondo di ieri con uno stile di racconto davvero moderno, all’interno del quale i piloti erano visti come individui per niente affamati di notorietà, pagati poco più di 250 dollari la settimana e con l’inconveniente di mettere spessissimo a repentaglio la propria vita. Ieri era l’America dei primi anni Sessanta, della corsa alla conquista dello spazio e della concorrenza – in piena Guerra Fredda – con il programma spaziale sovietico. Un distante passato in cui un’intera nazione, ancora scossa dall’assassinio di un presidente, Kennedy, e già stanco della guerra in Vietnam, aveva urgentemente bisogno di un sogno a stelle e strisce da glorificare. C’era bisogno di nuovi eroi, e li trovarono nei piloti che testavano i velivoli supersonici.
Come talvolta accade a Hollywood, accaparrarsi i diritti del romanzo di Wolfe è una lotta. I produttori di The Right Stuff, Irwin Winkler e Robert Chartoff, avevano a disposizione 350 mila dollari. Pure la Universal era interessata al libro, ma il progetto che aveva in mente era a dir poco scellerato: nientemeno che una commedia con John Belushi (forse non pago dell’insuccesso di 1941 – Allarme A Hollywood di Steven Spielberg). Non è ancora giunto il momento dei sospiri di sollievo, in conseguenza di ciò che patiranno poi, ma intanto i due produttori e la loro idea di film si aggiudicano il round. Per fare di The Right Stuff il film serio che immaginano, assumono Bill Goldman in veste di sceneggiatore. Per chi lo ignorasse, William ‘Bill’ Goldman era una delle penne più toste e riverite del periodo: aveva firmato, tra le altre cose, Tutti Gli Uomini Del Presidente, Il Maratoneta e Butch Cassidy. Tuttavia, lo scrittore commette l’imperdonabile errore di non includere tra i personaggi del film proprio quel Charles Yaeger, aviatore e poi generale, che sarà centrale nella storia di quei piloti da addestrare e che nel film si ritaglierà alla fine un ruolo da consulente tecnico.
Philip Kaufman prende allora in mano la situazione, scrive una prima versione della sceneggiatura in otto settimane. Tom Wolfe e la sua prosa perfetta sono l’orizzonte a cui guarda con ammirazione ma al tempo stesso prova a restituire in immagini il grande quadro epocale di quell’America. La sceneggiatura viene riconvertita in storyboard di oltre mille tavole da sottoporre ad Alan Ladd Jr, uno dei capi di Warner. In tutta risposta Kaufman si vede accordare un budget così modesto che non consente di assumere grandi star né usare grandiosi effetti speciali. Ma per il regista non rappresenta un problema. È già ampiamente motivato di suo a fare un film come quelli di una volta, senza esagerare con gli effetti – anche se siamo nella Hollywood dei primi anni Ottanta. Quanto agli attori, gli va di lusso in svariate occasioni. Ripesca qualche faccia nota, per esempio Jeff Goldblum con il quale aveva lavorato in Terrore Dallo Spazio Profondo nel 1978, e va a caccia di attori desiderosi di farsi notare. Uno di questi si chiama Dennis Quaid che gli regala il provino più bello di tutta la sua carriera di attore (peccato che un disguido non permise di registrarlo su nastro magnetico). Poi ci sono Ed Harris, da tutti considerato un mostro di bravura e tanto somigliante all’astronauta John Glenn, il riottoso Sam Shepard che non voleva proprio farlo il film, Mary Jo Dechanel (che di solito si ricorda come la mamma di Donna in Twin Peaks), Fred Ward, Barbara Hershey e molti altri.
Quando Uomini Veri inizia la sua lavorazione, George Lucas, amico di Kaufman dalla fine del 1979, mette a disposizione il motion control usato in Star Wars per le riprese dei velivoli. In realtà Kaufman si ribella all’idea: la tentazione di fare un film d’altri tempi troverà degna consacrazione grazie a filmati veri della NASA e di un filmmaker sperimentale. A dirla tutta, il motion control non si adattava così bene agli aerei di Uomini Veri. In quegli anni, tra l’altro, l’ingegno non mancava mai: tremolii della macchina da presa, vibrazioni dei movimenti, eccetera, bastavano questi trucchetti per dare l’impressione di velocità oltre la barriera del suono. Ma di tutte le battaglie con gli “effetti”, di solito Kaufman ama ricordare la scena in cui Scott Glenn stringe la mano a Kennedy. Una scena che ricorderete anche in Forrest Gump e che per loro fu possibile girare in una giornata di lavoro. E qui si arriva al cuore stesso di Uomini Veri. Philip Kaufman, oltre al racconto di questi piloti super-impavidi, desiderava che il pubblico assaporasse l’adrenalina dei test di volo. E per farlo, non solo si documentò parecchio, ma pretese parecchio realismo. Tipo andando a girare nei luoghi veri della Edwards Air Base, anche se la NASA negò l’autorizzazione fino a pochi giorni prima di iniziare a girare.
Tra incidenti sul set e incidenti “diplomatici” con lo stesso John Glenn che in quel 1983 correva per la carica di senatore e che non gradì il ritratto che di lui aveva fatto il film di Kaufman, Uomini Veri alla fine uscì nei cinema a ottobre ma tutto il clamore mediatico sembrò venire assorbito dalla politica e dalle imminenti elezioni presidenziali, anziché mostrare il suo vero volto. Quello cioè di una pellicola che oltre agli eroi, alla temerarietà di un’impresa raccontava il rischio e il costante pericolo di morire durante l’addestramento. Nella storia dei film, il lavoro di Kaufman è ricordato come innovatore in materia di effetti sonori e inoltre si portò a casa quattro premi Oscar. Un classico e un clamoroso fiasco al botteghino insieme che, paradossalmente, prese il volo nel cuore dei cinefili.
da: https://www.empireonline.it/
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Scheda |
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TITOLO ORIGINALE | The Right Stuff | ||
LINGUA ORIGINALE | Inglese, russo | ||
PRODUZIONE | Stati Uniti d'America | ||
ANNO | 1983 | ||
DURATA | 153' | ||
COLORE | Color (Technicolor) | ||
RAPPORTO | 1.85 : 1 | ||
GENERE | Drammatico, storico | ||
REGIA | Philip Kaufman |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | dall'omonimo libro di Tom Wolfe (1979) |
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PRODUTTORE | Irwin Winkler, Robert Chartoff |
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SCENEGGIATURA | Philip Kaufman | ||
FOTOGRAFIA | Caleb Deschanel | ||
MONTAGGIO | Glenn Farr, Lisa Fruchtman, Stephen A. Rotter, Douglas Stewart e Tom Rolf | ||
SCENOGRAFIA | Geoffrey Kirkland, Richard J. Lawrence, W. Stewart Campbell, Peter Romero, Pat Pending e George R. Nelson | ||
COSTUMI | James W. Tyson | ||
MUSICHE | Bill Conti | ||
TRUCCO | Yvonne Curry, Karen Bradley | ||
EFFETTI SPECIALI | Ken Pepiot, Gary Gutierrez, Jordan Belson | ||