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- Pubblicato Lunedì, 14 Settembre 2015 06:58
Sette note in nero (1977) di Lucio Fulci |
Virginia Ducci è una donna dotata di chiaroveggenza. Dopo aver vissuto “in diretta”, da bambina, il suicidio della madre, tutto sembrerebbe tornato normale, ma anni più tardi, di ritorno dall’aver accompagnato il marito in partenza per l’Inghilterra, Virginia ha una nuova visione: una donna viene uccisa e poi murata da un misterioso uomo zoppo. Arrivata in una vecchia proprietà del marito che intende ristrutturare, Virginia si rende conto che la casa corrisponde proprio a quella della sua visione e scavando in una parete scopre uno scheletro.
La visione, intanto, continua a tormentarla e la donna chiede aiuto all’amico Luca Fattori, studioso di paranormale, che all'inizio sembra non darle credito, ma che poi dovrà ricredersi quando alcuni indizi comporranno un puzzle inquietante collegato alle visioni di Virginia. Nel frattempo, l’identità dello scheletro viene scoperta e il marito della donna viene arrestato con l’accusa di omicidio, costringendo quindi Virginia a ricostruire la sua visione per scagionarlo e scoprire il colpevole.
L'idea iniziale del film era un riadattamento al romanzo Terapia mortale di Vieri Razzini, ma il regista in collaborazione con Roberto Gianviti, non trovando sbocchi sulla sceneggiatura, decisero di modificarla con l'aiuto di Dardano Sacchetti. La nuova sceneggiatura seguì la scia di Profondo rosso di Dario Argento, con chiaro riferimento al paranormale. Oltre al romanzo, modificato, di Razzini, il film prende spunto dal racconto Il gatto nero di Edgar Allan Poe, dove una donna viene murata viva.
La colonna sonora è stata composta dal trio Frizzi, Bixio e Tempera, in cui troviamo il tema principale Sette note in nero, che sarebbero le sette note del carillon dell'orologio, e la canzone dei titoli di testa With you cantata da Linda Lee (Rossana Barbieri) una delle componenti del gruppo Daniel Sentacruz Ensemble.
Assistiamo anche allo soppressione di un tabù: Fulci si decide ad ambientare il film in Italia, in Toscana: la pellicola si apre infatti con una panoramica di piazzale Michelangelo a Firenze, ma è palpabile la sua anglofilia, sin dalla scelta degli attori: la raffinata Jennifer O’Neill nel ruolo della protagonista, Marc Porel (già apprezzato nel ruolo del prete diabolico di Non si sevizia un paperino) in quello del marito traditore e il bravissimo ma compassato, “inglese” per stile, Gabriele Ferzetti.
Le campagne del Chianti si trasformano in una piccola colonia inglese: il Chiantishire; abbiamo ancora a che fare con nobiluomini, eredità e set decorati in stile classico. Splendida e retrò l’automobile dallo sproporzionato volante, che il regista affida alla guida della O’Neil, tutto in perfetto stile Agata Christie, la grande vecchia del giallo inglese per la quale, a detta di Sacchetti, Lucio Fulci aveva un’ammirazione sconfinata. In ogni caso il film è imparentato da vicino, nel tema della tumulazione, soprattutto al racconto “Il gatto nero” di Edgar Allan Poe.
Il pregio principale di Sette note in nero è la sua straordinaria capacità di sorprendere lo spettatore, Fulci & Co. hanno avuto il merito di costruire attorno allo spettatore una sorta di gabbia dalla quale, una volta entrati, è pressoché impossibile uscirne. La storia avvolge chi guarda il film, lo fa entrare nel micro mondo costruito da regista e autori, costringendolo per oltre un’ora e mezza a fare dei luoghi in cui è ambientata la pellicola il proprio mondo.
Siena, città dove si svolge la storia, si trasforma in un posto fantastico, slegato dal terreno, e si trasforma nella tela di un ragno: anche qui è rintracciabile il legame tra il primo Dario Argento e il Fulci del giallo, entrambi capaci di fare delle loro ambientazioni luoghi reali, spaventosi e angoscianti che sembrano avviluppare lo spettatore.
Guardando Sette note in nero o Profondo Rosso o ancora L’uccello dalle piume di cristallo si ha la sensazione di venire rapiti, di affrontare un viaggio nello spazio e nel tempo in cui ogni nostra cognizione fisica e razionale viene meno.
da:
https://it.wikipedia.org
http://www.horror.it
http://www.lazonamorta.it/
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- Pubblicato Lunedì, 14 Settembre 2015 05:58
La casa dalle finestre che ridono (1976) di Pupi Avati |
La casa dalle finestre che ridono, vero e proprio cult movie di Pupi Avati, ha già compiuto 40 anni, e mai come oggi ogni appassionato di cinema dell'orrore (e non) ha la possibilità di apprezzarlo in tutto il suo fascino (restaurato e rimasterizzato in digitale): quello delle opere povere, realizzate con infime disponibilità di denaro e personale, grossolane per certi aspetti, ma in realtà ricchissime d'idee, raffinate narrativamente e coinvolgenti nelle atmosfere. Opere che definire autentici colpi di genio non sarebbe poi così azzardato.
Avati, reduce dall'insuccesso di Bordella (1975), decide l'anno seguente di confrontarsi con un genere a lui inedito e di puntare al consenso di pubblico e critica con un film di paura, sull'onda del grande successo di Profondo Rosso (1975) e in generale di tutto il neonato thriller all'italiana.
Con circa 150 milioni di vecchie lire e coadiuvato da un team di sole 12 persone per tutti i ruoli della produzione, il regista bolognese, attingendo romanticamente per l'ambientazione da una Romagna rurale e arcaica, scrive col fratello Antonio Avati (qui anche produttore e scenografo), con Gianni Cavina (interprete dell'autista Coppola) e Maurizio Costanzo una favola nera dall'intreccio complesso ma coerente, un horror gotico dall'atmosfera agghiacciante in virtù, soprattutto, della sua atipicità.
Molti elementi concorrono alla creazione di quella suspense sottile e di quel senso di macabro e malato che si respirano già dalle prime sequenze, quando Stefano giunge al paese e vengono presentati i luoghi principali della vicenda: il cuore del villaggio (albergo e taverna) e la chiesa contenente il misterioso affresco.
Gli elementi profilmici di La casa dalle finestre che ridono costituiscono già uno scenario particolare e intrinsecamente arcano: campagne paludose, fatiscenti case coloniche, viottoli sterrati, canali, una solarità tenue, un insieme di personaggi buffi e macchiettati, ma anche ambigui ed enigmatici, una parvenza generale di microcosmo chiuso in se stesso, immobile e fuori dal tempo.
Inoltre una fotografia (di Pasquale Rachini, Il Gatto Nero) pastosa e dominante nelle tonalità giallo-ocra esalta l'ambiente nella luminosità rassicurante del giorno come nell'oscurità minacciosa della notte, mentre il tema musicale ricorrente (composto da Amedeo Tommasi) inquieta lo spettatore per tutta la durata del film, sin dall'ottimo prologo, dove un corpo urlante legato ai polsi viene martoriato da micidiali pugnalate.
La regia di Avati è, per di più, ricca di soluzioni efficaci e molto abile nel massimizzare l'effetto, a volte logoro, di alcuni dei più utilizzati clichè del cinema thriller e horror. Valga su tutte la sequenza, alla fine del film, in cui Stefano assiste inorridito al sacrificio di una giovane vittima, immolata per fungere da "modello agonizzante" per il pazzo pittore: una lunga e lenta soggettiva mostra i movimenti dell'esterrefatto protagonista, che si avvicina, quasi ipnotizzato, a osservare il luogo del delitto e il corpo straziato del giovane modello, finché, repentina, una tremenda coltellata attraversa l'inquadratura finendo appena sotto l'obiettivo!
La durata di La casa dalle finestre che ridono comporta un'inevitabile lentezza di fondo nello sviluppo della vicenda, ma l'attesa dello spettatore viene ripagata abbondantemente con un colpo di scena finale sopraffino, assolutamente da antologia.
da: http://www.latelanera.com
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- Pubblicato Lunedì, 24 Agosto 2015 09:38
14 novembre > 2 dicembre 2015
|
Organizzata dal Centro Culturale La Firma di Riva del Garda, la mostra rimarrà aperta dal 14 novembre al 2 dicembre presso la Sala Civica "G. Craffonara"
Sabato 14 novembre 2015 alle ore 18 presso la Sala Civica "G. Craffonara" Giardini di Porta Orientale di Riva del Garda sarà inaugurata la mostra personale dell'artista.
Maria Luisa Crosina leggerà due piccoli racconti di Hana Silberstein.
Particelle elementari, il titolo dell’esposizione, rimanda al modo dell’artista di affrontare il mondo, fondato su una visione primitiva e ironica della realtà circostante. La presenza costante della cultura Yddish si riversa nei personaggi dominanti le tele, che spesso sono giocolieri, animali, musicisti, circondati da colori sempre vivi e accesi. Si ritrovano collages di frammenti di giornali inseriti nei soggetti, a formare un supporto verbale quasi a volerci riportare di colpo alla realtà imminente, se le creature favolistiche sospese ce ne avessero momentaneamente allontanato.
Vi è un modo di affrontare il mondo che ha la leggerezza di un sorriso e la gravità di un ricordo da custodire con dolore. Hana Silberstein dipinge e riunisce un proprio universo in cui la sua storia personale si rifrange e compone con la vita e gli affetti attuali. La Storia, quindi. Figlia di un’ebrea che ha conosciuto l’abominio di Auschwitz, l’artista ha sempre portato la cultura del suo popolo come tessuto della propria avventura terrena.
Con discrezione e poesia la sua arte è un’adesione ai valori della sua tradizione, ai sentimenti di quanti hanno sofferto l’ingiustizia. Lo spirito yiddish si avverte in molti lavori, nell'ironia costante, nel dire cose serie senza eccessi di serietà. In questo la Silberstein esprime con la sua pittura una precisa posizione nei confronti di quanto la circonda e della sua arte.
Ma si badi bene che sorridere è sempre un partecipare alla vita, non certo un sentirsene staccati, un farsi da parte. Ed è ingannevole anche il suo primitivismo che ha fatto richiamare alla mente artisti come Brauner, Klee o Dubuffet perché non sempre la semplicità va nella direzione della storia. In questo caso sembra accennarsi più che una schematizzazione figurale “primitiva”, alla ricerca di un mondo che adulto non vuole essere, un nascosto elogio dell’immaturità. Per questo il suo mondo si popola di personaggi bislacchi e strani, di viandanti sbilenchi sempre affaccendati in un pellegrinaggio perpetuo. Ma troviamo anche giocolieri e pianisti che si mettono in fila con animali variopinti e buffi cani, cavalli snodabili e soprattutto cammelli.
E questo perché la pittrice ama gli animali come gli uomini, sa che fanno parte di una stessa famiglia e che il viaggio terreno li accomuna. Il cammello poi richiama direttamente il Medio Oriente, l’Africa ed è un simbolo di permanenza: tutto si trasforma, tutto si agita attorno, ma l’animale serafico e imperturbabile sembra sopravvivere con la sua saggezza ancestrale alla violenza e all'assurdità che gli si muove intorno. Come dice l’artista, è solo lui “il testimone della storia”…
La Silberstein è una viandante del pensiero e dell’azione caratteristica certamente comune al suo popolo, ma in cui la curiosità dell’artista fa il resto…I suoi personaggi si muovono leggeri cercando un’elevazione continua: vogliono staccarsi da terra e librarsi nel cielo. Certe influenze in questo senso chagalliane o di cultura yiddish in genere ci sono, ma sono pure assonanze, non fonti di ispirazione.
L’essere al mondo non implica di rimanerci incatenato. Probabilmente l’arte della Silberstein tende costantemente a vincere la gravità, sia quella fisica che quella psichica perché è proiettata in una dimensione di aperta spiritualità. Ritorna anche nelle sue opere, il lavoro cabalistico sulle lettere e sui numeri. In certi casi adopera come base per l’intervento pittorico dei giornali che formano un vero e proprio supporto verbale. Le parole in ebraico corrispondono ad un valore numerico, per questo vi è la legittimità di una loro traducibilità da un sistema all’altro. Ma nello stesso tempo in questo modo si riconosce la validità eterna della scrittura, del suo essere la base di ogni cultura, di ogni pensiero.
La scrittura diventa la Scrittura, ma non soltanto in senso religioso quanto anche in senso costitutivo: il mondo discende dalla parola ed è infatti la parola che dà il soffio vitale all’essere di fango.
In questa lenta spirale la pittura offre tutto il suo potere di suggestione e di felicità. Il colore e le morbide forme, aiutano a sedimentare un pensiero positivo con quella asincronia storica che ci parla dell’attuale, partendo da lontano, da un passato senza tempo. In questo Hana Silberstein costruisce immagini semplici e complesse, giochi visivi in cui l’improbabile, il favolistico appaiono più veri del vero.
Valerio Dehò
Hana Silberstein nasce nel 1951 a Tel Aviv in Israele da genitori polacchi sopravvissuti all’Olocausto. A Tel Aviv frequenta contemporaneamente il liceo e il conservatorio diplomandosi in pianoforte.
Giunta nel 1970 in Italia frequenta a Bologna l’Accademia di Belle Arti studiando con Walter Lazzaro e diplomandosi nel 1975. Dopo aver cominciato la sua carriera espositiva con una collettiva al Circolo Artistico di Bologna partecipa a numerose mostre personali e collettive in Italia (Bologna, Pisa, Mantova, Milano, Merano, Venezia, Verona, Volterra, Torino, Trieste, Ferrara, Parma, Ancona, Frascati, Brindisi, Lecce, Livorno) e all'estero (Barcellona-Spagna, Ginevra-Svizzera, Gent-
Belgio, Amburgo, Hannover, Colonia-Germania, Strasburgo-Francia, Klagenfurt-Austria) Sue opere sono conservate presso istituzioni pubbliche e collezioni private in Italia e all'estero.
La mostra è organizzata dal centro culturale La Firma di Riva del Garda, con il patrocinio del Comune di Riva del Garda e il contributo della Cassa Rurale Alto Garda.
Riva del Garda | Sala Civica «G. Craffonara» | Giardini di Porta Orientale
tutti i giorni 10.00 > 13.30 - 15.00 > 18.30 | Ingresso libero
Alcuni momenti dell'inaugurazione e della mostra
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- Pubblicato Sabato, 01 Agosto 2015 09:38
22 agosto > 9 settembre 2015 CHIAMATEMI DIVINA - Dorian Gray |
a cura di Franco Delli Guanti e Ludovico Maillet
Inaugurazione sabato 22 agosto ore 18.00
“Fascino e mistero”
Se alla metà degli anni Cinquanta si fosse chiesto all'italiano medio chi fosse Dorian Gray la stragrande maggioranza delle persone non avrebbe risposto pensando al protagonista del famoso romanzo di Oscar Wilde bensì ad una delle più belle attrici apparse nel panorama cinematografico italiano di quegli anni. Dorian Gray era una dea scesa dalle passerelle della rivista ad illuminare con la sua sola presenza molte commedie a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta: bellissima, ironica, con un alone di riservatezza e mistero, una perfetta Marilyn nostrana che fece sognare milioni di spettatori cinematografici.
Questo lavoro vuole riportare alla memoria una diva che un po' a causa della corta memoria nostrana - cinematografica ma non solo - e un po' per volontà della stessa Dorian ha fatto poco alla volta perdere le sue tracce.
Dorian Gray non aveva sempre portato questo nome impegnativo e un poco ambiguo: era infatti nata come Maria Luisa Mangini a Bolzano il 2 febbraio 1928 (con divistica civetteria sposterà poi nelle interviste la sua data e il luogo di nascita al 1936 a Roma!). Il padre, Luigi Mangini, era un dipendente statale di servizio nel capoluogo altoatesino e la madre, Flora Divina, era una casalinga originaria del Trentino. La famiglia abiterà a Bolzano fino all'agosto del 1938, quando, con Maria Luisa di appena 10 anni, si trasferirà a vivere a Pesaro.
L’inizio della carriera di Dorian Gray avvenne a Milano nel primo dopoguerra nelle file del balletto del Teatro alla Scala sotto la direzione del famoso coreografo Aurel Milloss. Sarà Erminio Macario a farla debuttare nel 1950 come soubrette nella rivista «Votate per Venere». Per un lustro si susseguono una serie di spettacoli di successo quali: «Il sogno di un Walter», «Gran Baraonda». «Made in Italy» e «Passo doppio», accanto a nomi importanti della rivista e dell’avanspettacolo quali Wanda Osiris, Walter Chiari, Alberto Sordi e Ugo Tognazzi.
A metà degli anni Cinquanta Dorian Gray tenta la carriera del cinema infilando uno dietro l’altro una serie di film di successo accanto a Totò: su tutti ricordiamo la parte della «malafemmina» in «Totò, Peppino e la... malafemmina».
È l’inizio di un successo travolgente che la porterà a girare oltre 30 film. Tra questi sicuramente meritano un posto d’onore due interpretazioni con i più grandi registi italiani di quegli anni: Federico Fellini e Michelangelo Antonioni. Per il regista riminese vestirà i panni di Jessey, l'amante frivola e capricciosa di Amedeo Nazzari nel film «Le notti di Cabiria». Antonioni invece le cambierà radicalmente look e personaggio facendole interpretare il ruolo drammatico della benzinaia Virginia ne «Il grido».
Nel frattempo Dorian si era legata sentimentalmente ad Arturo Toffanelli, figura di spicco del giornalismo di quegli anni e direttore della rivista «Tempo». Tofanelli si diede molto da fare per aiutare la carriera di Dorian: la sua rivista dedicò all'attrice moltissime copertine e servizi e - con la sua piccola casa di produzione, la «Tempo Film», co-finanziò diversi progetti che vedevano Dorian Gray tra i protagonisti. Nel 1962 Tofanelli finanzia una grossa coproduzione italo-tedesca-spagnola «Marcia o crepa», primo film a parlare apertamente della guerra d’Algeria, in cui Dorian interpreta nuovamente un ruolo tragico con notevole spessore ed espressività.
L’anno dopo nacque il figlio di Dorian e di Arturo Tofanelli: Massimo Arturo Tofanelli. Da quel momento Dorian si ritirò nella villa che si era fatta costruire a Torcegno in Valsugana vicino al luogo di origine della madre e si dedicò ad allevare il figlio diradando le sue apparizioni cinematografiche. Tornerà al cinema nel 1965 per due interpretazioni che chiudono una parabola artistica straordinaria.
Da questo momento più nulla. Come Grata Garbo, decide nel pieno del suo splendore fisico e artistico di scomparire all'età di 37 anni (ma per tutti ne ha 29!) e di isolarsi dal mondo e da tutti chiudendo ogni rapporto con l'ambiente cinematografico. Una tragica mattina dell'11 febbraio 2011 si toglie la vita nella sua abitazione di Torcegno.
Riva del Garda | Sala Civica «G. Craffonara» | Giardini di Porta Orientale
tutti i giorni 10.00 > 13.30 - 17.00 > 20.30 | Ingresso libero
Alcune immagini, in occasione dell'inaugurazione della mostra
- Il Trentino, 26 luglio 2015: Sulle tracce del mito Dorian Gray
- cinemaitaliano.info, 27 luglio 2015: "Chiamatemi Divina", Una mostra dedicata all'attrice Dorian Gray
- Il Trentino, 21 agosto 2015: La fatua bellezza di Dorian Gray rivive su foto e locandine a Riva, di Katia Dell'Eva
- La Lettura (Corriere della Sera), 23 agosto 2015: La "malafemmina" Dorian Gray: omaggio alla diva dal nome da uomo, di Paolo Mereghetti
- TrentinoMese, agosto 2015: Chiamatemi Divina
- Ciak, ottobre 2015 (L'opinione di Claudio Masenza): Ritratto di Dorian Gray
- Il Trentino, 20 ottobre 2015: «Chiamatemi Divina» Torcegno onora Dorian Gray, di Katja Casagranda
La mostra
La pagina Facebook dedicata a questo progetto: Chiamatemi Divina. Dorian Gray ritratto di una diva |
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