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- Pubblicato Lunedì, 14 Settembre 2015 10:58
Due per la strada (1967) di Stanley Donen |
La vita, la strada, l'amore. Tutto corre verso una meta, è difficile però prevedere le curve, i dossi, i pericoli, ma anche le gioie più o meno inaspettate che un cammino ci presenterà davanti a noi, e soprattutto non possiamo sapere con chi affronteremo questo tragitto e quanto durerà; questo è quello che accade a Joanna e Mark, i protagonisti di quello che è uno dei più bei road-movie di sempre, "Due Per La Strada" di Stanley Donen.
"Two For The Road" è un film di rara bellezza, un altro piccolo capolavoro del regista americano che rende al meglio la bellissima sceneggiatura di Frederic Raphael; una pellicola "on the road" in cui Donen gioca con lo spazio e il tempo raccontandoci la storia d'amore di una coppia nell'arco di dieci anni, coppia che è interpretata da due attori strepitosi, un' Audrey Hepburn immensa e un notevole Albert Finney.
Uno degli elementi più affascinanti del film è che l'intreccio non segue una linea narrativa precisa, infatti la vita di Joanna (Audrey Hepburn) e Mark (Albert Finney) è raccontata con una tecnica molto particolare fatta di incastri giocati su flashback, di momenti che si presentano nel corso del film e che rimandano a vari periodi della loro storia senza però seguire un filo cronologico.
Un lavoro quindi molto complesso che però sorprendentemente appare naturale; ho detto precedentemente che Donen gioca anche con lo spazio, il film si svolge in Francia, o megliosulle strade francesi che portano dal nord del paese (la Manica) fino alla Costa Azzurra. La cosa curiosa è cheil viaggio che la coppia percorre è sempre lo stesso ma ripetuto più volte nel corso dei dieci anni di vita insieme, protagoniste sono anche le varie auto che vengono usate dai due, da una vecchia MG per il primo viaggio da sposati (1958) fino alla Mercedes del 1967 che accompagna Joanna e Mark nei momenti più difficili del loro rapporto, le auto curiosamente compaiono contemporaneamente nei vari momenti del film intrecciando i loro percorsi in modo molto suggestivo.
La Francia che Donen riporta è una protagonista che si oppone alla felicità dei due, sembra che con le sue strade si diverta a rovinare il viaggio alla coppia. Una delle scene più belle è quella in cui la vecchia MG prende fuoco lasciando dietro di se una nuvola densa di fumo, ma soprattutto lasciando Joanna e Mark a piedi, proprio come quando si sono conosciuti un anno prima sulle stesse strade in modo casuale.
Donen racconta i dieci anni e i vari viaggi sovrapponendo il tempo agli stessi luoghi, per esempio in una scena del loro primo viaggio i due si appoggiano ad un muretto di un ponte in cerca di un passaggio, poco dopo si vede la Mercedes 280 bianca sfrecciare sullo stesso luogo con Mark alla guida incurante di una coppia di giovani autostoppisti. Sono questi piccoli passaggi così poco usuali in un film a fare di "Due Per La Strada" una pellicola interessante anche dal punto di vista tecnico, ma quello che emerge in modo notevole è la capacità dello sceneggiatore di raccontare la vita di due persone che si sono conosciute per caso, si sono innamorate e nell'arco di un tempo brevissimo si sono sposate senza pensarci troppo. Questo ha portato loro ad avere dei grossi problemi una volta finito l'idillio iniziale, si tradiscono, non si parlano (bellissima è la scena in cui Joanna e Mark appena conosciuti riconoscono una coppia sposata dal fatto che non parlano, e si promettono che non saranno mai così,un attimo dopo Donen li mostra dieci anni avanti seduti ad un tavolino senza più parole da dirsi), ma alla fine non possono fare a meno l'uno dell'altra.
L'inizio del film li mostra su un aereo diretti nuovamente in Francia, parlano di divorzio, il dialogo è assente, è da qui che Donen prende per mano la storia, dal momento in cui Joanna guardando fuori dal finestrino scorge il battello su cui conobbe Mark e incomincia a ricordare alcuni momenti della loro vita insieme, alla fine il regista riporterà lo spettatore definitivamente al 1967, alla risoluzione del rapporto di Joanna e Mark, un finale lieto e significativo, la strada è sempre meglio percorrerla in due anche nei momenti difficili.
Finché l'amore manterrà il suo profumo.
Io so che saremo Due per la strada,
per molto, molto tempo ancora
La colonna sonora è di Henry Mancini, il tema principale che accompagna anche i bellissimi titoli di testa è uno struggente brano jazz guidato dal piano diventato presto uno dei brani più famosi del compositore americano.
da: www.debaser.it/recensionidb/ID_17730/Stanley_Donen_Two_For_The_Road.htm
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- Pubblicato Lunedì, 14 Settembre 2015 09:58
Indiscreto (1958) di Stanley Donen |
“Indiscreto” (il cui titolo originale Indiscreet per una volta è stato tradotto esattamente) sembra essere il classico film dove lei incontra lui, che, però, è già sposato ma…sì, ci sono diversi ma. Primo fra tutti, la coppia di attori protagonisti costituita da una splendida Ingrid Bergman e da un Cary Grant sempre affascinante (che qui lavorano assieme per la seconda volta dopo “Notorius” di Hitchcock) vale da sola la visione del film (in Technicolor, per ammirare ancora meglio lo splendore degli abiti di lei). Secondo “ma”: è un classico nel suo senso più positivo perché ti lascia con il sorriso sulle labbra, ti fa sentire bene e mostra come una volta si fosse capaci di far ridere e piacere senza comicità forzate, scene idiote e linguaggio sporco. Qui la tensione erotica tra i due protagonisti è evidente ma senza venir mai mostrata apertamente ma solo lasciata intuire.
Terzo e ultimo “ma”: “Indiscreto” è una pellicola dal fascino antico dove la protagonista Anna (Ingrid Bergman) è sì un’attrice londinese ma di teatro e la sua vita non è affatto fatta di scandali e alcol ma solo di tanta solitudine: per una volta anche le star riescono a condurre una vita normale. Tutto qui è più semplice e meno frenetico.
Cary Grant interpreta Philip, diplomatico che lavora alla Nato e si innamora perdutamente di Anna. Tutto funziona bene anche se lei spera sempre che lui possa lasciare la moglie per sposare lei. Almeno finchè Anna non scopre che Philip non è affatto coniugato ma solo allergico al matrimonio. A questo punto la situazione diventa un paradosso perché Anna, giustamente, alla scoperta dell’assenza di impedimenti a diventare una coppia ufficialmente antepone la voglia di vendicarsi. Una situazione singolare ben raccolta nella battuta della Bergman: “Come osa fare l’amore con me senza essere sposato?”.
La storia in sé non è nulla di nuovo (tratta dal testo teatrale di Norman Krasna “Kind Sir”) anche se la svolta del non essere realmente sposato è abbastanza singolare. Bisogna comunque ricordare che si tratta di un film del 1958 quindi la storia non era stata così sfruttata come ora. Merito della piacevolezza del film, oltre ad una splendida scenografia (che meraviglia la casa di lei) e a una certa velata comicità è la chimica tra i due attori: è evidente come le due star di Hollywood, infatti, si trovino bene a lavorare assieme tanto da sembrare grandi amici anche sul grande schermo, così come nella vita reale.
A spiccare nella storia è anche la figura del cognato di Anna, interpretato da Cecil Parker, colui che presenta Anna e Philip ma anche la figura più cinica e distaccata che, al contrario di quanto richiesto dalla moglie, cerca di non intromettersi troppo.
È ricordato spesso per essere la prima pellicola della storia del cinema in cui compare la tecnica dello split screen: in una scena, infatti, in cui i due chiacchierano al telefono, lei a Londra e lui a Parigi, lo schermo viene diviso in due e quando entrambi giocano con le mani sembra quasi che possano toccarsi. Nel complesso un film piacevole e allegro, capace di far spesso sorridere.
da: https://theroadtothepast.wordpress.com
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- Pubblicato Lunedì, 14 Settembre 2015 08:58
Sei donne per l'assassino (1964) di Mario Bava |
Mario Bava. Nel 1963, con La Ragazza che Sapeva Troppo, getta le basi del giallo all'italiana. L’anno successivo, con Sei donne per l'assassino, lo codifica in modo definitivo.
Mario Bava scelse di scrivere e dirigere un film giallo in cui le indagini della polizia fossero solo un aspetto marginale della storia e si concentrò sul body count e sulle sequenze dei delitti, mai così efferati e sadici. Il meccanismo investigativo della scoperta dell’assassino, interessava fino a un certo punto.
Gli elementi che poi sarebbero confluiti in decine e decine di gialli italiani successivi e che lo stesso Argento avrebbe plag…ehm…sfruttato a suo uso e consumo agli esordi, sono tutti già presenti in questo piccolo gioiello che, rivisto a quasi mezzo secolo di distanza, è anche invecchiato benissimo e sembra girato l’altro ieri.
Abbiamo l’assassino misterioso e mascherato che si accanisce con una crudeltà inimmaginabile sulle sue vittime. Ognuna di esse viene uccisa in maniera diversa e grande enfasi viene posta sui minuti immediatamente precedenti ai vari omicidi, creando così delle lunghe ed estenuanti sequenze di attesa, che preparano l’esplosione di violenza. L’ambientazione della storia è quella di un atelier, i protagonisti appartengono all’alta borghesia. Interni lussuosi, ville, ricchezza ostentata in tutti gli oggetti di scena. Poca, o nulla, introspezione psicologica dei personaggi, che, non a caso, nei bellissimi titoli di testa, vengono accostati a dei manichini. Colori sgargianti, pochissimi esterni, assenza quasi totale di riprese diurne (in Sei Donne per l’Assassino, una sola scena è girata alla luce del giorno).
Sei Donne per l’Assassino era un prodotto a basso costo, con un budget di 123.000 lire. Bava fu costretto, come sempre nel corso della sua carriera, ad arrangiarsi. Ma l’esiguità del budget quasi non si nota, in un film che appare come tra i più esteticamente ricchi del nostro periodo d’oro.
Una questione di stile, soprattutto, del modo unico che aveva Mario Bava di saper trarre il massimo dal niente che aveva a disposizione. E allora, ecco che Sei Donne per l’Assassino non si limita a impostare il sottogenere dal punto di vista della trama e delle situazioni proposte. Bava inventa un linguaggio che avrebbe fatto adepti in ogni parte del mondo.
In tal senso è indicativa la famosa scena nel negozio di antiquariato, con il gioco di luci intermittenti tra il verde e il rosso,e la modella inseguita dal killer che appare e scompare tra i corridoi come un fantasma. La conclusione con un omicidio estremamente feroce per gli standard dell’epoca, oltre a essere una mezza citazione da La Maschera del Demonio (perché Bava le citazioni le faceva, anche quelle, prima di tutti gli altri) diventa il punto culminante di un climax di tensione sempre più insostenibile. Tensione creata solo dai movimenti e dalle prospettive della macchina da presa di Bava, che è la protagonista assoluta e indiscussa del film.
Il film fu un flop commerciale, in Italia. Andò un po’meglio all’estero. La critica lo accolse storcendo il naso. Troppo violento, privo di spessore e di contenuti. Se si tendeva a esaltare il lato tecnico ed estetico, dava fastidio il voler puntare tutto sul body count. In Francia, invece, i critici se ne uscirono con delle interpretazioni che sbalordirono lo stesso Bava: “Sono venuti quelli dei Cahiers du cinéma, e mia figlia mi diceva che volevano sapere il tessuto connettivo tra quella targa che oscilla all’inizio del film Sei donne per l’assassino, dove c’è un temporale, e il telefono che casca quando la Bartok muore. Io non mi ricordavo neanche come finiva il film”
Lasciando perdere i tessuti connettivi tra targhe e fili del telefono, Sei Donne per l’Assassino dipinge un mondo spietato, in cui ogni azione compiuta dai personaggi è dettata da avidità e denaro. Il killer maniaco non è altro che un espediente per depistare le indagini della polizia. Non c’è una mente folle dietro gli omicidi, solo lo squallore di un grigio individuo a caccia di soldi.
Non è poi così paradossale che il film di Bava abbia influito anche sullo slasher americano degli anni ’80, dove i protagonisti vengono puniti per i loro atteggiamenti edonistici dall’assassino puritano di turno. Ma Bava, rispetto ai colleghi statunitensi, riesce a essere più sottile. Non c’è nessuna connotazione moralista, nessuna entità giudicante che uccide per mettere ordine. E forse questa caratteristica rende Sei Donne per l’Assassino molto più attuale rispetto a tanti suoi epigoni.
da: https://ilgiornodeglizombi.wordpress.com
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- Pubblicato Lunedì, 14 Settembre 2015 07:58
L'uccello dalle piume di cristallo (1970) di Dario Argento |
Scrittore americano di passaggio a Roma, Sal Dalmas assiste, attraverso la vetrata di una galleria d'arte, ad un tentativo di omicidio. Benché sia stato soltanto il suo intervento a mettere in fuga il misterioso killer, presto le indagini della polizia si concentreranno proprio su di lui, in breve assorbito in un vortice di aggressioni da parte di un assassino che continua ad uccidere indisturbato.
Insieme alla fidanzata, cercherà allora di venire a capo della situazione, convinto com'è di non riuscire a ricordare un dettaglio fondamentale in grado di risolvere l'enigma.
Dopo un apprendistato come soggettista e sceneggiatore (C'era una volta il West e Metti una sera a cena) e un'esperienza da critico cinematografico per Paese sera, il ventinovenne Argento esordisce alla regia con un film che sancisce una nuova epoca, di fatto una reale canonizzazione, per il cosiddetto "giallo all'italiana".
Assorbita la lezione di Mario Bava (La ragazza che sapeva troppo, Sei donne per l'assassino) e con un occhio sempre teso al maestro Alfred Hitchcock (si pensi solo al cammeo di Reggie Nalder, indimenticabile nel ruolo del killer in L'uomo che sapeva troppo), il cineasta romano confeziona un gioiello in cui balzano all'attenzione qualità registiche fuori dal comune: l'importanza fondamentale della soggettiva, delle tecniche di montaggio, dei suoni, delle distorsioni e degli inganni, l'occhio di una macchina da presa sempre alla ricerca di punti vista inediti (aiutata in questo caso anche dall'apporto di Vittorio Storaro alla fotografia) fanno di L'uccello dalle piume di cristallo un vero classico, punto di riferimento obbligato per ogni studioso del cinema italiano, anche al di là del genere di appartenenza.
Violento, forsennato, pauroso, mette nero su bianco una ricetta che il regista tenderà a riproporre in tutti i suoi successivi gialli, compreso il capo d'opera Profondo rosso.
È un mondo di folli quello di Argento, di detective improvvisati e di particolari da mettere a fuoco, un viaggio nell'inconscio che può fare anche a meno della logica, ma mai della potenza del pezzo forte, di uno forma personalissima che ha ridefinito i canoni del cinema di spavento nostrano.
Imitato fino alla nausea, non solo in quello stile mai eguagliato in realtà, ma soprattutto nel titolo (non si contano le pellicole uscite in quegli anni che fanno riferimento a tarantole, lucertole, farfalle, iguane e bestie varie), ebbe un importante successo di pubblico. Insieme ai successivi Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio costituisce la cosiddetta "trilogia degli animali".
Non è un segreto che alla base dell'ispirazione del regista ci sia il romanzo giallo La statua che urla di Fredric Brown.
da: http://www.mymovies.it/
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