Cinema Estate
Dal 31 luglio al 14 agosto 2023
Tre serate con film muti accompagnati da musica eseguita dal vivo.
Tutte le proiezioni sono a ingresso libero
(in caso di maltempo si svolgono all'auditorium del Conservatorio).
31 luglio 2023 ALFRED HITCHCOCK Il pensionante eseguito da Massimo Giuntoli |
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7 agosto 2022 BUSTER KEATON La legge dell'ospitalità 1923 Musica ed esecuzione dal vivo del Maestro Marco Dalpane con l'Ensemble Musica nel buio |
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14 agosto 2023 NINO OXILIA Rapsodia satanica 1917 Musica di Pietro Mascagni eseguita dal vivo dal Maestro Gerardo Chimini |
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Ore 21.30 (ore 21.00 il 14 agosto) Ingresso libero Cortile interno della Rocca Piazza Cesare Battisti 2 Riva del Garda (TN) In caso di maltempo le proiezioni si svolgono all'Auditorium del Conservatorio |
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Alcuni momenti delle serate
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NEIL SIMON, UN PROVINCIALE A NEW YORK Invito a cena con delitto (USA 1976) |
L'eccentrico miliardario Lionel Twain (Truman Capote) invita nella propria villa i cinque più famosi detective del mondo, per metterli alla prova in un curioso gioco: un delitto sta per consumarsi tra le mura della casa, e starà all'abilità dei professionisti del crimine scoprire il misterioso colpevole, evitando insidie e trabocchetti per aggiudicarsi un milione di dollari di premio. Gustosa parodia del genere giallo, impreziosita da istrioniche caricature di altrettanti personaggi di detective dalla provenienza letteraria,
Invito a cena con delitto è un interessante quanto innocuo meccanismo di comicità, costruito sulla base di una sceneggiatura di Neil Simon a sua volta ispirata alla trama del romanzo Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Intrattenimento frizzante, arguto e ben congegnato, quanto fine a se stesso, il film vanta un corposo cast nel quale spiccano un Peter Sellers celato sotto i bizzarri panni del petulante investigatore cinese Sidney Wang (emulo del Charlie Chan protagonista dei romanzi di Earl Derr Biggers), Peter Falk ispirato all'Humphrey Bogart interprete del personaggio di Sam Spade, protagonista de Il mistero del falco (1941) di John Huston, e James Coco impegnato in una chiara parodia dell'Hercule Poirot creato dalla Christie.
Una giostra di gag, situazioni e dialoghi surreali, ben strutturata ma macchinosa specie nella seconda parte, quando il gusto giocoso assume toni esagerati ed eccessivamente canzonatori. Completano il cast David Niven (Dick Charleston) e un surreale Alec Guinness nei bizzarri panni di un maggiordomo cieco.
Colonna sonora di Dave Grusin.
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NEIL SIMON, UN PROVINCIALE A NEW YORK La strana coppia (USA 1968) |
Nato sul set di Non per soldi… ma per denaro con la benedizione di Billy Wilder, il sodalizio Lemmon/Matthau si concluderà, insieme alla carriera di Lemmon, con La strana coppia II, mal riuscito sequel on the road, per la regia di Howard Deutch e con lo stesso Simon non più in stato di grazia alla sceneggiatura, delle disavventure di Oscar e Felix divenuti, trent’anni dopo, consuoceri. Ma nel 1968 la strana coppia funziona. Grazie soprattutto allo script di Simon che inanella gag e battute da antologia (“Che vedo a fare le carte, se ho intenzione di barare?”) dentro tempi comici rigorosi. E all’interpretazione di Matthau e Lemmon, indimenticabili nei rispettivi ruoli dello scapolone sciamannato e impenitente e dell’ipocondriaco ordinato e pieno di fisime. Compostamente sferzante Oscar-Matthau che, pressato dai compagni di poker a fare qualcosa per Felix, chiosa: “E cosa vuoi dire ad un uomo che piange nel tuo gabinetto?”. Esilarante Lemmon quando suscita la compassione delle sorelle Piccioni (Monica Evans e Carole Shelley) che avrebbe dovuto corteggiare. O quando gorgheggia, in un locale, per stapparsi le orecchie davanti ai clienti perplessi: stupore che ricorda, a posteriori, la vecchina di “quello che ha preso la signorina” in Harry ti presento Sally; scena replicata e fallita invece nel sequel.
Girato quasi interamente all’interno di un appartamento di New York come A piedi nudi nel parco, la seconda prova del tandem Saks-Simon racconta ancora una volta paturnie, battibecchi e più o meno classiche scene da matrimonio, con dialoghi più incisivi e una imprescindibile variante di genere: i protagonisti del ménage “quasi” d’amore sono due uomini. Coppia non per Vizietto e nemmeno per finta (Lemmon è una credibile ed esasperante donna di casa senza i travestimenti di A qualcuno piace caldo) ma per caso. Pure per caso era nata l’idea di una versione cinematografica de La strana coppia prima che fosse scritta. Simon fece cenno alla commedia teatrale che aveva in mente, durante i colloqui con la Paramount per discutere il passaggio di A piedi nudi nel parco al grande schermo, e la casa di produzione acquisì i diritti cinematografici de La strana coppia in ampio anticipo sul suo debutto a Broadway con lo stesso Matthau come coprotagonista.
Grande successo di botteghino, La strana coppia ottenne due candidature all’Oscar per la migliore sceneggiatura non originale (Simon) e per il miglior montaggio (Frank Bacht). Al diciottesimo posto nella classifica delle cento migliori commedie americane stilata dall’American Film Institute, la pellicola è stata trasposta qualche anno dopo sul piccolo schermo nell’omonima serie dell’Abc con Tony Randall e Jack Klugman.
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NEIL SIMON, UN PROVINCIALE A NEW YORK A piedi nudi nel parco (USA 1967) |
Corie e Paul sono freschi di nozze: si sistemano in un appartamento al quinto piano senza ascensore nel Greenwich Village. Iniziano i primi problemi di coppia, dovuti a differenze caratteriali: spirito libero lei, più conservatore lui.
Deliziosa commedia di Neil Simon, autore della pièce teatrale (1963) e, per la prima volta, anche della sceneggiatura: prima volta al cinema anche per Gene Saks, ex-attore divenuto regista teatrale nel 1963 che, con il commediografo, stabilirà una feconda collaborazione portando a teatro e su grande schermo anche La Strana Coppia e California Suite. Battute brillanti, dialoghi spassosissimi, ricchezza di situazioni e passaggi coinvolgenti contornano la descrizione amabile e simpatica di una relazione sentimentale, ovviamente ritratta nei suoi tratti salienti ma con esagerazioni che sanno cogliere perfettamente la realtà della coppia, alla prova del nove nell’anticonformismo dei piedi nudi nel parco di Washington Square, segnata dalle discrepanze sin dal conteggio dei piani per raggiungere l’appartamento (sei per Paul, cinque per Corie), fuori d’allegoria se gli ardenti baci e assalti romantici di Corie terrorizzano l’impassibile Paul. Il divertimento, invece, lo assicurano le macchiette dei comprimari, elegante seduttore di Charles Boyer compreso (Victor Velasco…). Se l’opera, per quanto degradabile in umori e costumi, resta un classico evergreen da vedere e rivedere, molto è dovuto ai due bravissimi e bellissimi protagonisti dalla chimica perfetta, non per niente votati a futura gloria: Robert Redford replica (come Mildred Natwick e Herb Edelman) il ruolo indossato a teatro, Jane Fonda sostituisce Elizabeth Ashley.
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100 TOGNAZZI 100 La tragedia di un uomo ridicolo (Italia 1981) |
Primo Spaggiari (Ugo Tognazzi), industriale caseario, assiste al rapimento del figlio Giovanni (Ricky Tognazzi). Primo deve raggranellare due miliardi per il riscatto e la moglie Barbara (Anouk Aimée) gli consiglia di vendere l'azienda. Sul rapimento di Giovanni sembrano sapere molto Laura (Laura Morante), fidanzata del ragazzo, e Adelfo (Victor Cavallo), un prete operaio. Quando giunge la notizia della morte del figlio, Primo tenta di usare i soldi del riscatto per salvare il caseificio.
Attraverso l'uso di una fotografia (di Carlo Di Palma) dai colori spenti e funerei, il far vagare i suoi personaggi in ampi e desertificati spazi e la dilatazione dei tempi narrativi che dà al tutto una dimensione surreale e vagamente onirica, Bertolucci dà forma visiva a uno stato confusionale e di profonda incertezza che accomuna tutti i personaggi dinnanzi alla fase transitoria tra la fine degli anni bui del terrorismo e un inizio di decennio (gli anni ottanta) gravato da dubbi e paure. Il protagonista è poi emblema di una classe borghese profondamente inadeguata, amareggiata e malinconicamente legata al passato, sfiduciata dinnanzi al futuro (e alle giovani generazioni che «non ridono ma sghignazzano o sono cupi e soprattutto non parlano più e dai loro silenzi non si capisce se chiedano aiuto o stiano per spararti addosso»), egoista e grottescamente stordita nei momenti di difficoltà. Ottima la prova, tutta in sottrazione, di un dolente Ugo Tognazzi che restituisce sullo schermo un personaggio stanco e sfiduciato ed è stato premiato con la Palma d'Oro per la migliore interpretazione maschile al Festival di Cannes. Il titolo del film richiama a quello del racconto di Fedor Dostoevskij, Sogno di un uomo ridicolo.
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100 TOGNAZZI 100 La donna scimmia (Italia Francia 1964) |
Il film è una coproduzione italo-francese del 1964. Il progetto, però, risale alla metà degli anni '50, al cosiddetto "periodo spagnolo" di Marco Ferreri, che occasiona l'elettivo sodalizio con lo scrittore Rafael Azcona. Insieme, infatti, firmano la sceneggiatura. Il soggetto s'ispira alla vicenda di Julia Pastrana: donna barbuta nata in Messico nel 1834, esibita come fenomeno in freak show di vari Paesi, conosce un certo Theodore Lent che diventa suo marito e impresario; a 26 anni Julia mette al mondo un bambino (peloso), che muore subito dopo, raggiunto dalla madre per complicazioni post-partum; Lent fa mummificare moglie e figlio per esibirli nei suoi spettacoli.
Ma questa non è la sola fonte del film. Secondo le dichiarazioni di Azcona, “nello stesso periodo in Spagna si parlava molto d'un miracolo: una ragazzina nel bosco era stata aggredita da un paio di malfattori pronti a violentarla. Terrorizzata la ragazzina invocò la Madonna e d'un tratto il suo corpo si era coperto di peli...”(La Repubblica, 1 luglio 2001). Questo fatto di cronaca non siamo riusciti ancora a reperirlo. Non importa, giacché di là dall'attualità occasionale (ciascuno ha il suo cielo sulla palude), l'episodio miracoloso ripete un mythos cristiano e rinnova un exemplum agiografico. La medesima narrazione, appena diversificata nel corso dei secoli, si rapprende nel martirio di Santa Staraosta: per sottrarsi alle nozze con un principe pagano, la vergine cristiana supplica Iddio di renderla indesiderabile; la grazia viene impetrata, le crescono barba e baffi; a questo punto, il padre s'infuria e la fa crocifiggere.
Del resto, il corpo di una martire barbuta è già stato oggetto di devozione dell'ape regina. Ma, quanto a genesi della Donna scimmia, c'è un'altra referenza decisiva: un dipinto di Jusepe de Ribera (detto Spagnoletto): Maddalena Ventura con il marito e il figlio (ovvero Donna barbuta, 1631). Una specie di Sacra Famiglia: padre, madre e bambino attaccato al seno; la donna che allatta il neonato è villosa (molto villosa). Il quadro è sconcertante. Visto all'epoca, a Toledo, per Ferreri e Azcona dev'essere stata una folgorazione. Un'immagine surrealista. Una 'invenzione', cioè una trovata. Se la vicenda di Pastrana definisce il plot come supporto per un apologo crudele, se il fatto di cronaca fissa una iconografia popolare e religiosa, il dipinto paradossale di Spagnoletto è un'immagine movente. Di qui nasce e prolifera il film: per “gemmazione”, direbbe Ferreri. Il quadro di Ribera, su commissione del Vicerè di Napoli Ferdinando II, è stato dipinto a Napoli. Per questo, senza mare, senza Vesuvio, il film è stato girato a Napoli.
La donna scimmia ottiene il visto di censura (n. 42051), l'8.01. 1964, con divieto ai minori di anni 14 “contenendo scene e sequenze non adatte alla particolare sensibilità dei minori stessi”. Prima proiezione al Metropolitan di Bologna, il 29.01.1964. Come si chiude il film? Maria (la donna-scimmia, Annie Girardot) muore di parto, poco dopo il bambino; il marito Antonio (Ugo Tognazzi) cede i due cadaveri al Museo delle Scienze dove vengono imbalsamati; ma Antonio ci ripensa e, reclamati i corpi, li espone in una baraccone da fiera. Questo il terribile, coerente explicit voluto da Ferreri. Tuttavia, in diverse città, viene proposta una edizione mutila: il film si chiude sulla morte (sacrificale) di Maria. Non è ancora chiaro a chi si deve la manomissione (al produttore Carlo Ponti? alla distribuzione?), che testimonia oggi solo di uno zelo censorio non richiesto. Dell'epilogo, poi, occorre una variante sorniona (concordata con Ferreri) nella versione per l'estero: la donna-scimmia perde i peli durante la gravidanza e dà alla luce un bambino normalmente glabro, condannando il marito a un lavoro onesto. Il restauro della Donna scimmia approntato nel 2017 dall'Immagine Ritrovata riporta in successione i tre finali.
(Dal catalogo "Il Cinema Ritrovato - XXXIV edizione")
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100 TOGNAZZI 100 La marcia su Roma (Italia 1962) |
Il 28 ottobre 1922 le sorti politiche e civili dell’Italia cambiarono drasticamente a causa della cosiddetta Marcia su Roma, l’insurrezione organizzata dal Partito Nazionale Fascista al fine di ottenere il potere con la forza. Obiettivo che Benito Mussolini, capo del partito, riuscirà ufficialmente a raggiungere il 30 ottobre, quando il re Vittorio Emanuele III incaricò il Duce di formare un nuovo governo.
Dino Risi, uno dei maggiori esponenti dell’intramontabile commedia all’italiana, nel 1962 realizzò un film dal titolo La marcia su Roma, nel quale il regista de Il sorpasso e I mostri raccontava in modo ironico e satirico l’avvenimento citato poc’anzi. Il lungometraggio in questione vede come protagonisti Domenico e Umberto, due ex commilitoni, interpretati rispettivamente da Vittorio Gassman e Ugo Tognazzi, che vengono assoldati per far parte delle cosiddette Camicie nere. I due appaiono da subito come individui ignoranti e oziosi molto facili al plagio.
Domenico (Gassman) è un romano indolente e qualunquista che vive di espedienti mentre Umberto (Tognazzi) è un ingenuo contadino disoccupato che vive a carico del cognato. Insieme ad altri squadristi cominciano questa improbabile marcia su Roma durante la quale si alternernano sequenze comiche ad altre drammatiche come nella migliore tradizione del nostro cinema.
Dino Risi scandaglia il fascismo e lo ridicolizza mettendo in evidenza il fatto che la maggior parte degli aderenti a questa corrente politica erano persone analfabete e facilmente influenzabili. Pertinente a tal proposito risulta il seguente aforisma del noto filosofo britannico Bertrand Russell: “Il passo successivo (in un movimento fascista) è quello di affascinare gli sciocchi e mettere la museruola agli intelligenti, con l’eccitazione emotiva da un lato e il terrorismo dall’altra.”
Da antologia risultano le sequenze in cui Umberto, il quale durante la pellicola tiene costantemente tra le mani il programma elettorale del partito, sbarra progressivamente i punti che non vengono rispettati. La premiata coppia Gassman/ Tognazzi come sempre fa faville; la romanità spaccona e al contempo generosa del primo ben si sposa con il candore e la vigliaccheria del secondo. Domenico e Umberto sono due antieroi che cercano goffamente di destreggiarsi in una società improntata all’ottusità e all’imbarbarimento.
Risulta doveroso menzionare altri componenti del cast come Mario Brega e Liù Bosisio tra i tanti.
Come asserì il compianto drammaturgo italiano Pier Paolo Pasolini a proposito di quegli anni: “L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è ora, il fascismo.”
La marcia su Roma è un’opera figlia de La Grande Guerra di Mario Monicelli e Tutti a casa di Luigi Comencini, due lungometraggi divenuti cult in cui si analizzavano in forma di commedia all’italiana la prima e la seconda guerra mondiale. Dino Risi ancora una volta ci offre magistralmente lo spaccato di un periodo storico decisivo nella storia del nostro paese.
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LUIGI COMENCINI, IL REGISTA DELL'INFANZIA Voltati Eugenio (Italia Francia 1980) |
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LUIGI COMENCINI, IL REGISTA DELL'INFANZIA Incompreso (Italia 1966) |
Un classico del melodramma strappalacrime, diretto con molto pudore e garbo da un Comencini in ottima forma. Il film è tratto da un romanzo della scrittrice inglese Florence Montgomery che lessi anch’io durante la mia infanzia, e pur con vari accorgimenti legati al cambio di ambientazione (la storia originale si svolgeva in Inghilterra nel XIX secolo), le dinamiche della trama sono rimaste le stesse.
Al centro della vicenda un console inglese a Firenze rimasto prematuramente vedovo con due figli a carico, di cui trascura il primo, in realtà molto bisognoso delle sue attenzioni e del suo affetto, e vizia un po’ troppo il secondo, una piccola peste capace di combinare solo guai a catena, anche se il padre tende a prendersela, puntualmente, con il primogenito. Una delle migliori qualità del film è quella di aver posto al centro della scena due bambini credibili, osservati dall’occhio della cinepresa nei loro rituali quotidiani, nei loro giochi, ma per quanto riguarda Andrea anche nel suo disperato tentativo di stabilire una comunicazione autentica col padre, tentativo destinato continuamente a fallire, tranne nel tragico finale. La figura del padre, dal canto suo, funziona perché non è mai caratterizzata come un classico “cattivo”, ma semplicemente come un uomo sofferente per la morte della moglie che si trova impreparato a gestire la responsabilità di crescere da solo due figli e commette una serie di errori, più per superficialità che per cattiveria. Il contributo degli attori risulta importante, così come l’attenta direzione del regista: Anthony Quayle è assai misurato e convincente nel ruolo del console, i due bambini sono bravi, in particolare Stefano Colagrande nel ruolo di Andrea, un’interpretazione sensibile e ricca di sfumature da annoverare fra le migliori interpretazioni di un attore bambino del cinema italiano (in seguito Colagrande ha abbandonato completamente lo schermo per dedicarsi alla professione di medico).
Certo, soprattutto nell’ultima parte è inevitabile che lo spettatore si sciolga in lacrime, ma mi sembra che Comencini abbia sempre rispettato i limiti del buon gusto e della sensibilità di un autentico “cinema popolare” che oggi non esiste più; rispetto ad altri film analoghi di quegli anni che puntarono sul patetismo come “Love story”, “Incompreso” ne esce vincente. Da menzionare la fotografia di Armando Nannuzzi vincitrice di un Nastro d’Argento e la colonna sonora di Fiorenzo Carpi, con un ricorrente tema musicale impregnato di malinconia che contribuisce molto all’atmosfera piuttosto triste di diverse sequenze; per contrasto, però, la scena della gita in bicicletta a Firenze per comprare il regalo di compleanno al padre è commentata da una musica molto allegra e vivace, sempre perfettamente funzionale.
Insieme a “Le avventure di Pinocchio” resta il più bel film sull’infanzia del regista, bravo quasi come Truffaut a descriverci gioie e dolori di quel periodo fondamentale della vita di una persona.
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