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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 14:00
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100 ANNI CON FELLINI Toby Dammit (1968) Block notes di un regista (1969) |
TOBY DAMMIT - Federico Fellini, 1968
Tutti conoscono il Cinema del nostro Federico Fellini, uno dei più famosi e amati registi di sempre.
In pochi, però, hanno visto l’episodio Toby Dammit, inserito nel film Tre Passi nel Delirio, antologia liberamente ispirata ai racconti di Edgar Alla Poe. Il film, distribuito nei cinema nel lontano 1968, è un vero e proprio omaggio allo scrittore di Boston da parte di Louis Malle, Roger Vadim e Federico Fellini, appunto.
Dei tre episodi, quello assolutamente da vedere nonché quello più riuscito è proprio quello del regista nato a Rimini nel 1920.
Toby Dammit, con Terence Stamp, Salvo Randone, Milena Vukotic e ispirato a Mai Scommettere la Testa col Diavolo, racconta di un attore alcolizzato che accetta di prendere parte a un western all’italiana in cambio di una Ferrari. In poco più di quaranta minuti, Fellini dirige la sua opera più oscura, minacciosa e paurosa. Un’autentica gemma, fin troppo spesso dimenticata, della filmografia del nostro.
LA SCENA CULT
La furiosa folle corsa notturna in auto di Toby Dammit, interpretato da un grande Terence Stamp. Indimenticabile.
LE CURIOSITA’
Marlon Brando e Richard Burton sono stati entrambi considerati per interpretare il ruolo di Toby Dammit.
Tre Panni nel Delirio è stato distribuito in Inghilterra solamente nel 1973. Nel 2019 è invece uscito per il mercato inglese in Blu-ray e DVD con il titolo Spirits of the Dead.
In Toby Dammit appare brevemente una bambina che ricorda, da vicino, il bambino presente in Operazione Paura, capolavoro di un altro Maestro del Cinema: Mario Bava. Fellini però non informò mai Bava di questa citazione, il regista horror se ne accorse solamente quando vide il film in sala.
Una versione restaurata di Toby Dammit è stata presentata all’edizione 2008 del Tribeca Film Festival di New York. Il restauro, a cura del direttore della fotografia Giuseppe Rotunno, è stato possibile grazie al Centro Sperimentale di Cinematografia e al contributo di Ornella Muti e KGC.
Il finale di Toby Dammit è tutto incentrato su di una folle corsa notturna in auto del protagonista. La sequenza ricorda da vicino la scena di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick dove i quattro drughi sono a bordo di un auto prima di scatenarsi in una lunga notte di ultraviolenza.
da: http://barracudastyle.com/
BLOCK-NOTES DI UN REGISTA di Federico Fellini
Documentario fittizio e auto-narrazione in forma diaristica, redatta e girata da Federico Fellini mentre era sul set per Il viaggio di G. Mastorna, il suo grande progetto mai realizzato. C'è spazio anche per i dettagli delle ricerche relative alla preparazione e alla lavorazione del Satyricon.
Come dimostrerà ampiamente in seguito, il Fellini dell'ultima parte della sua carriera è un autore che nel metacinema è armoniosamente a suo agio: non esita a mettersi in scena sempre e comunque, sbandierando un indulgente autobiografismo affiancato da una sostanza poetica che con gli anni si andrà facendo sempre più concreta. Questo è il preludio in provetta a quella tipologia di cinema, una cine-agenda di nome e di fatto di discreta importanza storica, in rapporto al Fellini che seguirà ma anche come documento sui suoi metodi di lavoro. Il materiale però non è tutto interessante o irrinunciabile, e c'è qualche passaggio di troppo in cui manca un po' di appeal. La vera chicca è il provino di Marcello Mastroianni per il ruolo di Mastorna, che dice moltissimo del rapporto tra il regista e il suo divo prediletto.
da: https://www.longtake.it/
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Scheda |
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TITOLO | Toby Dammit | ||
PRODUZIONE | Francia, Italia | ||
ANNO | 1968 | ||
DURATA | 43' | ||
COLORE | Colore |
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RAPPORTO | 1.75 : 1 | ||
GENERE | Orrore, thriller | ||
REGIA | Federico Fellini |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | dal racconto di Edgar Alan Poe | ||
PRODUTTORE | Alberto Grimaldi, Raymond Eger |
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SCENEGGIATURA | Bernardino Zapponi, Federico Fellini, Louis Malle, Roger Vadim, Pascal Cousin | ||
FOTOGRAFIA | Giuseppe Rotunno |
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MONTAGGIO | Ruggero Mastroianni | ||
SCENOGRAFIA | Pietro Tosi | ||
MUSICHE | Nino Rota | ||
TITOLO | Block-notes di un regista | ||
LINGUA ORIGINALE | Inglese, italiano | ||
PRODUZIONE | Stati Uniti | ||
ANNO | 1969 | ||
DURATA | 60' | ||
COLORE | Colore | ||
RAPPORTO | 1,33 : 1 | ||
GENERE | Documentario | ||
REGIA | Federico Fellini | ||
INTERPRETI E PERSONAGGI |
Federico Fellini: se stesso Giulietta Masina: se stessa Marcello Mastroianni: se stesso Caterina Boratto: se stessa Marina Boratto: se stessa David Maumsell: se stesso prof. Genius: se stesso Cesarino: se stesso Bernardino Zapponi: se stesso Lina Alberti: se stessa Alvaro Vitali: se stesso Ennio Antonelli: se stesso Attori non professionisti |
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SOGGETTO | Federico Fellini, Bernardino Zapponi | ||
SCENEGGIATURA | Federico Fellini, Bernardino Zapponi | ||
FOTOGRAFIA | Pasqualino De Santis | ||
MONTAGGIO | Ruggero Mastroianni | ||
MUSICHE | Nino Rota | ||
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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 13:00
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100 ANNI CON FELLINI Fellini Satyricon (1969) |
I protagonisti sono Ascilto ed Encolpio, due giovani scapestrati romani che vivono di espedienti in una Roma imperiale simbolo della decadenza morale dei tempi. Lo sfondo sociologico del film è quello delle nuove classi sociali, come i liberti arricchiti e i cavalieri.
I due si innamorano dell'efebo Gitone e per un po' le sue grazie vengono divise dai due fino a che questi sceglie Ascilto. A questo punto, Encolpio sconfortato si lascia andare psicologicamente e viene coinvolto in varie avventure...
La fonte bibliografica principale a cui si ispirarono Fellini e il cosceneggiatore Bernardino Zapponi è La vita quotidiana a Roma all'apogeo dell'Impero (1939) di Jérôme Carcopino (1881-1970). Il film fu distribuito e prodotto dalla P.E.A. in collaborazione con Les Productions Artistes Associes di Parigi. Il regista stesso definì il film come "un saggio di fantascienza del passato", ma la critica apparve subito spiazzata dall'estremo sperimentalismo narrativo di tipo onirico che Fellini adottò nel film, e per questo molti recensori furono discordi sul valore e il significato dell'opera. In realtà il regista aveva intenzione di prendere l’opera petroniana semplicemente come spunto per descrivere, attraverso il fasto decadente della Roma imperiale dell’epoca, la decadenza stessa insita nella nostra civiltà occidentale moderna e contemporanea. Egli vuole rendere l’instabilità della condizione umana e la forza del Caso che pervade tutte le culture nella fase della curva discendente e che interviene a far percepire all’essere umano la caducità della propria vita e l’impossibilità di prevedere ciò che riserva il futuro.
«Nella sua struttura di ricognizione onirica di un passato inconoscibile e di rapporto fantastorico sulla Roma imperiale al tramonto, come guardata attraverso l'oblò di un’astronave, il Satyricon non nasconde le sue ambizioni di essere un film sull'oggi]]. L’itinerario picaresco e becero dei due vitelloni antichi (purtroppo né personaggi veri né simboli) lascia il posto a un’ansia esistenziale e religiosa, all’interrogazione sul significato del nostro passaggio terreno. Su questo versante – al di là della straordinaria ricchezza figurativa, funerea e notturna dell’insieme – i momenti più felici sono l’episodio della villa dei suicidi e l’addio alla vita del poeta Eumolpo» (Morando Morandini[3])
Il critico cinematografico Davide Rinaldi così spiega l’intimo significato del film ponendo un parallelo con La dolce vita: «Come ne La dolce vita, il Fellini Satyricon mette i riflettori sulle abiezioni umane, i sogni, le babilonie, la negatività del protagonista, ma mentre il primo film si muoveva nell’ambito della civiltà contemporanea (riconoscibile per tutti) il secondo indaga l’inconscio collettivo, e per questo rappresenta un percorso e un'opera più ostica, a tratti noiosa, non di certo rassicurante. Gli spettatori assistono al film come se questo fosse fatto di sabbie mobili: ogni elemento contiene dei buchi neri in cui perdersi e per cui perdere continuamente il filo del discorso. La grandezza del Fellini Satyricon consiste ancora una volta nella sua inutilità, nel suo essere svincolato dai problemi dell’oggi e del domani, ma di rivolgersi direttamente nell’interiorità dell’umanità, al di là di confini spaziali, temporali, sociali.[4]»
Il Satyricon di Fellini è un testo cinematografico ricolmo di simbologie oniriche che rimandano alla decadenza del mondo d'oggi. Ad esempio i personaggi vivono in un mondo di rovine: Encolpio e il poeta Eumolpo visitano ad un certo punto un museo. Esso contiene opere d’arte classica già antiche, deteriorate dal tempo, e contemporaneamente sullo sfondo alcuni personaggi sfilano su un carrello come in una messa in scena da teatro di posa. Ed ancora, su una spiaggia si vedono alcuni cannibali divorare il corpo di un poeta, mettendo in scena metaforicamente una sorta di percorso regressivo, archetipico, in cui il cannibalismo è il simbolo del ritorno ad una fase primitiva, animalesca dell'uomo. Attraverso il materiale onirico, Fellini vuole mettere in scena gli incubi e le perversioni inconfessate della società archetipica che descrive, colorando il tutto di una forte patina dionisiaca, irrazionale. La critica sulle prime sembrò ignorare tali significati profondi ed accusò la mancanza di continuità del film ed il fatto che non si interessi di problemi sociali.
Curiosità
- Tra le comparse utilizzate nel film c'è anche Renato Fiacchini, in arte Renato Zero.
- Nel ruolo del Minotauro, Luigi Montefiori, che di lì a qualche anno sarà presenza fissa in polizieschi all'italiana e spaghetti-western, con il nome d'arte di George Eastman.
- Nell'episodio della Matrona di Efeso Fellini mette il soldato a guardia di un impiccato mentre nel libro di Petronio si parla di un crocefisso, cosa che ha fatto pensare a molti che l'Arbitro volesse fare una satira della Resurrezione di Cristo dandone una spiegazione in chiave comica (ribaltando la tesi del filologo Erwin Preuschen che sosteneva che il Vangelo di Marco si rifacesse proprio al Satyricon).
da: http://www.enciclopediadeldoppiaggio.it/
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 12:00
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100 ANNI CON FELLINI Roma (1972) |
Federico Fellini si è sempre considerato un uomo nato in viaggio, definizione che ha ribadito volentieri in svariate occasioni. Nato nel centro Italia, si è sempre sentito molto legato a quella che è stata la culla della sua carriera cinematografica, la seconda casa da cui non si allontanerà mai, nonché lo scenario perfetto per i suoi capolavori: Roma.
L’opera che meglio valorizza il binomio Fellini-Roma è appunto Roma (1972), film connotato da un’estetica al limite del barocco, nobile e al contempo grottesco nei contenuti. Fellini raccontò la città eterna come nessuno aveva mai fatto prima, filtrandone la rappresentazione attraverso il proprio modo di amare e temere Roma. Non mancò occasione di affrontare il tema della religiosità nel film, e Fellini lo fece con una scena memorabile, quella in cui nobili, vescovi e cardinali assistono a una sfilata di modelli per suore e preti, mentre in sottofondo la musica di Nino Rota commenta la sequenza con un tema ironico e quasi infantile. Il percorso artistico di Fellini è sempre stato improntato sulla presa di coscienza di sé, che lo portò a infondere la propria soggettività cinematografica in tutti i suoi lavori; in ogni luogo, palazzo e abitante romano che decideva di immortalare. Per il maestro romagnolo Roma fu prima il mondo degli artisti del varietà (Luci del varietà, 1950), poi monumentale e mostruosa (Lo sceicco bianco, 1952), infine un traguardo per chi volesse lasciare la provincia – metafora del nido materno – per passare all’età adulta e quindi all’indipendenza (I Vitelloni, 1953).
Se nei suoi lungometraggi Fellini raccontò di sé, della sua vita, dei suoi amori, delle sue passioni e delle sue paure professionali, Roma ne era lo sfondo costante, luogo per lui di crescita e cambiamento. Il punto più alto raggiunto dal cineasta è quello della raffigurazione della Roma bene, dei salotti borghesi, delle dive, dei locali notturni, delle feste esclusive e dei personaggi famosi; della bella vita romana che scoppia in pieno boom economico: di qui nacque La dolce vita (1960). La messa in scena di Fellini, il suo modo di esporre i fatti e i drammi dei personaggi, era del tutto nuova: il passaggio da un episodio all’altro avveniva attraverso degli stacchi netti senza dissolvenza, come davanti a dei quadri pittorici, accomunati dal tema della dolce vita romana.
Non si potrebbe spiegare il legame tra Fellini e Roma senza parlare di Cinecittà. In un’intervista rilasciata a “La Repubblica”, il regista disse: «Quando ero piccolo questa parola, “Cinecittà”, evocava l’idea di una dimensione che avrebbe fatto parte della mia vita». Fu infatti la Hollywood italiana lo scenario in cui Fellini mosse i suoi più grandi passi, e la capacità che il regista aveva di ricreare qualsiasi cosa all’interno di quei capannoni è ancora oggi inarrivabile. Il suo penultimo film, Intervista (1987), è proprio un’autobiografia in cui Fellini illustra il suo legame con la “città del cinema” e con gli addetti ai lavori, raccontando come grazie a quel luogo fosse riuscito ad amare ancora di più il cinema, sovrapponendo vita e arte come se alla fine fossero esattamente la stessa cosa. Il rapporto di Fellini con Roma era così forte che i tratti del suo cinema sono tutti racchiusi nella città, resa definitivamente eterna proprio dalle sue opere.
da: https://www.1977magazine.com
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Scheda |
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LINGUA ORIGINALE | Italiano | ||
PRODUZIONE | Italia, Francia | ||
ANNO | 1972 | ||
DURATA | 119' | ||
COLORE | Color (Technicolor) | ||
RAPPORTO | 1.85 : 1 | ||
GENERE | commedia, biografico | ||
REGIA | Federico Fellini |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | Federico Fellini, Bernardino Zapponi |
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PRODUTTORE | Turi Vasile Ultra Film, Les Productions Artistes Associés |
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SCENEGGIATURA | Federico Fellini, Bernardino Zapponi | ||
FOTOGRAFIA | Giuseppe Rotunno | ||
MONTAGGIO | Ruggero Mastroianni | ||
SCENOGRAFIA | Danilo Donati | ||
MUSICHE | Nino Rota | ||
EFFETTI SPECIALI | Adriano Pischiutta | ||
COSTUMI | Danilo Donati | ||
TRUCCO | Rino Carboni | ||
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 11:00
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ROAD MOVIE: IL CINEMA AMERICANO PER ECCELLENZA Easy Rider (1969) |
Era un torrido 14 luglio 1969 quando nelle sale americane uscì un film che a molti sembrò un’operazione ambiziosa ma senza speranza: una pellicola indipendente e per buona parte improvvisata, costata appena 400mila dollari, senza una trama vera e propria e realizzata da due attori poco conosciuti al grande pubblico. Nonostante le premesse e un’estate fra le più calde di sempre, i cinema di Los Angeles e di New York vennero presi d’assalto da intere legioni di giovani provenienti da tutto il paese, attirati soprattutto dal passaparola dei tanti gruppi della controcultura hippie. In meno di poche settimane quel film, Easy Rider, divenne un vero e proprio caso cinematografico, tanto che – dopo essere stato premiato a Cannes come miglior opera prima – l’anno dopo guadagnò perfino due nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura e per il miglior attore non protagonista (Jack Nicholson, all’epoca praticamente sconosciuto). Ancora oggi, per l’American Film Institute, il film di e con Dennis Hopper è all’ottantaquattresimo posto nella classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi.
Non male per un’opera il cui intento era proprio quello di provocare e scandalizzare l’opinione pubblica statunitense, raccontando personaggi e vicende tutt’altro che familiari e consolanti per il cittadino americano medio. I due protagonisti, Wyatt “Capitan America” (Peter Fonda) e Billy (Dennis Hopper), già spacciatori di cocaina fra il Messico e gli Stati Uniti, arrivati in California decidono di destinare parte del guadagno all’acquisto di due motociclette nuove con l’intenzione di attraversare il paese per andare a vedere il Carnevale di New Orleans, noto anche come Mardi Gras. Sulla strada incontreranno hippy strafumati, bordelli, poliziotti brutali, cittadini rancorosi e un avvocaticchio figlio di papà (Jack Nicholson appunto) che aiuterà i due ad uscire da galera. Un viaggio tra due Americhe diverse e in conflitto che si diventerà una fuga da un sogno americano tradito e trasformato quasi in incubo. Fino ad un finale atroce e simbolicamente devastante.
Per comprendere al meglio la forza sovversiva dell’immaginario di Easy Rider dobbiamo però rileggere il contesto di quell’epoca. Siamo nel 1969 e gli Stati Uniti si trovano in uno dei periodi più bui della propria storia’, iniziato qualche anno prima con l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy: da una parte la guerra del Vietnam è arrivata alla massima escalation di violenza (proprio quell’anno la presenza americana raggiunse il picco storico di 550.000 soldati), dall’altra le tensioni interne esplodono in un cortocircuito che è sì razziale e sociale, ma anche e soprattutto generazionale.
L’industria cinematografica aveva già saputo intercettare un certo vento anticonformista e nel 1967 Mike Nichols con Il Laureato aveva già posto le basi per raccontare l’incomunicabilità fra giovani e adulti. Easy Rider fa un passo nella stessa direzione, ma come la passeggiata lunare di Neil Armstrong di quello stesso anno, è anche un grande balzo per una Hollywood ormai in crisi di idee e di talenti: tanto che da lì un poi si chiamerà appunto “New Hollywood”, definendo anche artisticamente un nuovo confine fra padri e figli ed aprendo la strada a una nuova generazione di autori. Tutto questo perché in quella disconnessione fra professori e studenti, fra classe dirigente e ribelli, fra realtà filtrata e realtà senza filtri, Easy Rider sceglie di raccontare una storia generazionale dal punto di vista dei giovani e non dell’establishment, infischiandosene delle conseguenze politiche e morali. Questo è anche il motivo principale del suo incredibile successo, tanto che molto tempo dopo, lo stesso George Lucas ammise che l’opera prima di Hopper “ha cambiato completamente l’idea per le corporation di che cosa fosse un film di successo, cioè che dovesse avere successo tra i giovani.” (...)
Curata dallo stesso Dennis Hopper, la soundtrack è un vero e proprio manifesto musicale di quegli anni, in cui si parte da classici come Born to be Wild degli Steppenwolf, si arriva alla splendida ballata dei The Byrds Wasn’t Born to Follow, fino a passare dal rock più duro dei The Jimi Hendrix Experience con If 6 was 9. Musiche che, come nel caso de Il laureato, assumono a tutti gli effetti una loro “anima”, legata e allo stesso tempo autonoma dalla pellicola. Più di tutti fu Quentin Tarantino negli anni ‘90 a fare la stessa cosa con le musiche di film come Le Iene e Pulp Fiction.
Più di ogni altra, la vera innovazione narrativa è però quel finale amarissimo con la bandiera a stelle e strisce che prende fuoco e che trasforma il film di Hopper in una vera e propria ballata triste per anime libere: quasi un canto funebre che seppellisce quel poco che rimaneva del sogno americano insieme alle speranze di un’intera generazione. Insolito però che da quelle stesse ceneri prenderà vita forse quella è la più grande stagione del cinema americano: perché dopo (e anche grazie) ad Easy Rider arriveranno Coppola, Altman, Scorsese e Cassavetes. Il viaggio per le strade di una nazione era appena iniziato.
da: http://www.anonimacinefili.it/
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Scheda |
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TITOLO ORIGINALE | Easy Rider | ||
LINGUA ORIGINALE | Inglese | ||
PRODUZIONE | Stati Uniti d'America | ||
ANNO | 1969 | ||
DURATA | 94' | ||
COLORE | |||
RAPPORTO | 1,85 : 1 | ||
GENERE | Drammatico, avventura | ||
REGIA | Dennis Hopper |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | Peter Fonda, Dennis Hopper, Terry Southern |
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PRODUTTORE | Peter Fonda |
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SCENEGGIATURA | Peter Fonda, Dennis Hopper, Terry Southern | ||
FOTOGRAFIA | László Kovács | ||
MONTAGGIO | Donn Cambern | ||
SCENOGRAFIA | Robert O'Neil | ||
MUSICHE | The Byrds, Hoyt Axton, Steppenwolf, Bob Dylan, Jimi Hendrix, John Keene, The Band | ||
EFFETTI SPECIALI | Steve Karkus | ||
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