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- Pubblicato Venerdì, 23 Settembre 2016 20:00
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Delitto in pieno sole (1960) di Reneé Clément |
Philip Greenleaf vive a spese del padre, ricco californiano, nell'immaginaria località balneare italiana di Mongibello (gli sfondi reali sono di Ischia) con la connazionale Marge. L'ha raggiunto l'amico Tom Ripley, che dal padre di Philip ha avuto l'incarico di riportarlo a casa. Insolente, Philip si diverte in molti modi, incluso l'umiliare Tom. Costui però ne subisce il fascino e, al tempo stesso, matura l'odio nei suoi confronti. Consapevole della loro somiglianza, progetta di sostituirsi a lui. (...)
Quinto film di Delon, e primo da protagonista, Plein soleil precedette immediatamente il suo incontro con Luchino Visconti. La parte di Ripley venne offerta a Delon dopo il rifiuto di Jacques Charrier, allora più famoso di lui e marito di Brigitte Bardot. In un primo tempo i ruoli dovevano essere inversi: Delon però s'impuntò e ottenne la parte principale.
Totalmente priva di mistero, la pellicola si trascina un po' pesantemente nella pretesa che la macchinazione del protagonista possa anche gettare uno sguardo beffardo sulla dubbia moralità borghese. Delon (allora venticinquenne) è nel pieno della sua fulgida bellezza, ma non passa inosservato nemmeno lo charme del collega Maurice Ronet. Elegante, snob, un po' inamidato. Fotografia di Henri Decaë, musiche di Nino Rota. Dallo stesso romanzo è stato tratto anche il dimenticabile Il talento di Mr. Ripley (1999) di Anthony Minghella.
La critica francese dell'epoca non si scaldò per Plein soleil, limitandosi a notare che esso lanciava definitivamente Delon: si parlò di "fredda perfezione", di "film americano girato in Francia", che non sfiora tuttavia i livelli di Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) di Alfred Hitchcock: il paragone con Hitchcock è giustificato dal fatto che un altro romanzo di Patricia Highsmith, Strangers on a train, era già stato portato sullo schermo dal regista con lo stesso titolo (L'altro uomo, noto anche come Delitto per delitto, 1951).
In effetti, col senno d'allora, Plein soleil è un film di genere; col senno di oggi è un classico: una sorta di autopsia di un delitto quasi perfetto, sostenuto da una costruzione attentissima della suspense e da atmosfere sferzate dal sole che catturano gli umori del romanzo. Martin Scorsese, impressionato dal crogiolo di passioni, invidie e omicidi del film, lo ha recentemente rilanciato promuovendone un restauro che restituisce appieno la bellezza cromatica dell'Eastmancolor di Decaë.
http://www.longtake.it
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- Pubblicato Venerdì, 23 Settembre 2016 19:00
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Il ritorno di Mr. Ripley (2005) di Roger Spottiswoode |
Il ritorno di Mr. Ripley (Ripley Under Ground) è un film del 2005 diretto da Roger Spottiswoode e basato su Il sepolto vivo, secondo romanzo del ciclo di Tom Ripley della scrittrice Patricia Highsmith. Il protagonista è interpretato da Barry Pepper.
Sullo sfondo di una truffa concepita ed attuata nel mondo del collezionismo d'arte londinese, si fronteggiano due uomini: Tom Ripley, un "irriverente" uomo di mondo, sempre pronto ad ideare nuove strategie per arricchirsi, e Bernard, un pittore votato alla coscienza tragica della propria debolezza, che accetta la parte di esecutore della truffa e dipinge alcuni falsi quadri d'autore. La scoperta casuale dell'inganno dà il via non solo agli ineluttabili scenari del crimine, ma anche al confronto sul filo del rasoio di due caratteri ed atteggiamenti opposti: l'amoralità di Tom ed i sensi di colpa di Bernard, la determinazione dell'uno e la paura dell'altro, che si trasforma in un ansioso viaggio verso la morte.
La critica non è stata particolarmente benevola nei confronti del film. In particolare molti hanno considerato la trasposizione cinematografica non all'altezza di quella presente nel libro. Non apprezzata anche la prestazione dell’attore protagonista. Per queste ragioni, anche il pubblico ha snobbato il film ritenendo migliore il precedente capitolo della saga, gli spettatori sono stati ancora inferiori in Italia dove il film è uscito solo nel maggio del 2009.
https://it.wikipedia.org
http://www.lettera43.it/
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- Pubblicato Venerdì, 23 Settembre 2016 18:00
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Il gioco di Ripley (2002) di Liliana Cavani |
"Ripley's Game", presentato fuori concorso alla 59 Mostra del Cinema di Venezia, è il quarto adattamento cinematografico della serie ideata da Patricia Highsmith. Il primo romanzo, Il talento di Mister Ripley è stato adattato due volte, prima nel 1961 da Renè Clement, " Delitto in pieno sole" e poi nel 1999 da Anthony Minghella con Matt Damon come protagonista, conservando il titolo originale. Ripley's game,invece, fu oggetto di un famoso film, "L'amico americano" realizzato da Wim Wenders nel 1978.
Lo sfuggente e misterioso Ripley sembra tagliato apposta pensando alle doti di Malkovich. L'attore americano ne sublima le peculiari particolarità.
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- Pubblicato Venerdì, 23 Settembre 2016 17:00
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I pugni in tasca (1965) di Marco Bellocchio |
I pugni in tasca ha compie cinquantuno ann. All’uscita il film creò grandi discussioni, grazie anche a un passaggio semiclandestino al festival di Venezia dove, rifiutato dalla selezione ufficiale, fu presentato a margine della manifestazione. Tutti gli intellettuali ne parlarono, Moravia, Soldati, Pasolini, Calvino, e alla fine la pellicola, praticamente autoprodotta, incassò bene risultando, come ricordato con divertimento dal regista, l’unico affare della sua vita.
Perché tanto clamore? I pugni in tasca racconta la storia di una famiglia problematica: senza padre, con una madre cieca e quattro figli. Solo il più grande è “normale” e inserito, Augusto (Marino Masé); poi c’è Giulia (Paola Pitagora), morbosamente legata al fratello maggiore, Leone (Pierluigi Troglio), epilettico e ritardato, Alessandro (Lou Castel), epilettico e insofferente. Vivono in una grande casa borghese decaduta a Bobbio (paese natale di Bellocchio), nei pressi di Piacenza. E in quella villa sembrano come confinati, a parte Augusto, incapaci di relazioni significative col mondo esterno.
Il più bizzarro è Alessandro: insoddisfatto e nevrotico, attratto dalla sorella e con velleità imprenditoriali – vorrebbe mettere su un allevamento di cincillà – che non si traducono mai in atti concreti. Solo un disegno conduce a termine: uccidere i componenti della famiglia, prima la madre, poi Leone. Delitti compiuti, come dichiara preventivamente al fratello maggiore, per dar respiro al bilancio familiare, su cui gravano le spese per la mamma inferma, permettendo così ad Augusto di sposare la fidanzata.
Per capire l’enorme attenzione e lo scandalo del film, bisogna interrogarsi su quale fosse l’Italia di quegli anni: un paese nel quale, l’esempio è notissimo, l’inchiesta sulla condizione femminile realizzata da un giornalino scolastico, “La zanzara” del liceo Parini di Milano, era sfociata in un processo, perché le ragazze avevano parlato con franchezza di sesso prematrimoniale. Un paese quindi dalla morale pubblica ancora rigida, incapace di dare voce alle inquietudini giovanili: basti pensare, restando al cinema, che mentre in Francia, Gran Bretagna o Polonia i registi del nuovo cinema d’autore erano quasi tutti giovani, Godard, Truffaut, Reisz, Wajda, in Italia l’avanguardia cinematografica era nelle mani di Fellini e Antonioni. Che venivano da un’altra generazione e, soprattutto, raccontavano un’altra generazione.
Bellocchio invece aveva 25 anni ed era portatore di istanze che non avevano ancora trovato spazio: giocoforza, e aldilà delle intenzioni dell’autore, il film venne interpretato in una chiava paradigmatica e fortemente simbolica, come espressione di un malessere giovanile diffuso. L’esplosione del ’68 fece il resto, consegnando stabilmente I pugni in tasca all'epopea movimentista, di cui sarebbe stato letto come spia e prodromo. Un equivoco che lo stesso Bellocchio alimentò, con la militanza nell’Unione dei comunisti marxisti-leninisti e la realizzazione di documentari rigorosamente “rivoluzionari” (Viva il primo maggio rosso, 1968; Paola ovvero Il popolo calabrese ha rialzato la testa, 1969).
In realtà I pugni in tasca, come i film successivi del regista avrebbero reso più evidente, era il risultato di rovelli molto personali, venati di accenti autobiografici. Forse proprio per questo capaci di intercettare lo spirito del tempo, mostrando sentimenti e rabbie condivise. Perché, come mise bene in luce Moravia, “Bellocchio ha dato fondo a tutto ciò che di solito costituisce il mondo della giovinezza […] odio e amore della famiglia, ambiguità dei rapporti fraterni, attrazione verso la morte, entusiasmo per la vita, volontà astratta di azione, furore impotente, malinconia morbosa, violenza profanatoria e infine, a sfondo di tutto questo, il senso cupo e fatale di una provincia senza speranza”.
I giovani si riconobbero. E gli adulti si allarmarono, alla vista d’un personaggio sgradevole, inetto e malato, capace di uccidere con indifferenza e sinistro piacere (al funerale della madre si vanta con la sorella dell’omicidio), preda d’una frenesia repressa e slanci distorti. Butta giù dalla scarpata la mamma cieca, desidera (e forse consuma) l’incesto con la sorella, affoga il fratello minorato: e lo fa con spirito distaccato, quasi abulico, come si trattasse solo di far quadrare il bilancio familiare.
Sono l’ambiguità e la mancanza di motivazioni nei gesti di Alessandro a fare de I pugni in tasca un’opera spaventosa e sgradevole: “la tragicità sta tutta nello sguardo freddo”, disse Calvino, espresso attraverso una grammatica visiva quasi naturalistica, controllata e priva d’impennate “d’autore”. Uno stile avvertito, che rende ancora più realistica la storia: perciò più inquietante, dato che l’Alessandro di buona famiglia e buoni studi non è troppo diverso dal ragazzo della porta accanto, le cui bizzarrie si tendono a reputare del tutto innocenti.
Perciò I pugni in tasca non poteva lasciare indifferenti: benché lo si volesse negare, c’era qualcosa di familiare in quel protagonista, una vicinanza che spiega perché nel finale, come nota ancora Moravia, quando Alessandro “si abbandona all'esaltazione vitalistica e mortuaria che gli ispira la musica verdiana e muore, lo spettatore prova un sentimento di pietà come per la morte di un eroe in fondo positivo”.
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- Pubblicato Venerdì, 23 Settembre 2016 16:00
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Gioventù, amore e rabbia (1962) di Tony Richardson |
“Correre ha sempre avuto grande importanza nella nostra famiglia, specialmente correre dalla polizia. E’ difficile da capire. Tutto quello che so è che bisogna correre, correre senza sapere il perché, attraverso campi e boschi. E il traguardo non è la fine, anche se la folla potrebbe tifare fino a diventare sorda. Questa è la solitudine che prova un corridore di lunga distanza.”
Con queste parole ha inizio Gioventù, amore e rabbia (The Loneliness of the Long Distance Runner), un film del 1962 diretto da Tony Richardson. Richardson aveva già realizzato Giovani arrabbiati ed era in testa alla nuova ondata di registi che prendeva piede nel Regno Unito tra gli anni cinquanta e sessanta.
Il protagonista del film, Colin Smith, è un giovane ragazzo che viene condannato al riformatorio a seguito della rapina di un panificio commessa da lui ed un suo amico. Grazie alle sua abilità atletiche, in particolare alle sue capacità di resistenza nella corsa, riesce a scalare i ranghi dell’istituzione, fino a diventare il beniamino del direttore. Durante il suo allenamento, che consiste in lunghe corse solitarie intorno al riformatorio, Colin si trova a fantasticare sulla sua vita prima dell’incarcerazione e a rivalutare la sua posizione privilegiata all'interno del riformatorio.
E’ facile rivelare nella storia del film un accenno di quel sentimento di ribellione giovanile che avrebbe dominato gli anni ’60. In particolare, era l’ostilità senza compromessi del protagonista nei confronti delle autorità che preoccupava i censori che reagirono con disappunto e malcontento all’uscita del film.
Quando messo a confronto con la propria situazione di sottomissione nel riformatorio, da un altro ragazzo che gli dice: “Sono loro quelli con la frusta in mano”, riferendosi alle autorità. Smith allora risponde senza battere ciglio: “Sai cosa farei se avessi io in mano la frusta? Prenderei tutti i poliziotti, i governatori, le puttane d’alta classe, gli ufficiali dell’esercito e i membri del parlamento, gli appiccicherei al muro e gliela farei sentire, perché questo è quello che vorrebbero fare loro a tizi come noi.”
E’ comprensibile che questo atteggiamento preoccupasse i censori. Che fosse un ladro a vestire i panni dell’eroe, poi, era inaccettabile. Senza parlare di quella che fu identificata come “palese e snervante propaganda comunista”.
Colin Smith è interpretato da Tom Courtenay, nella sua prima apparizione sul grande schermo (anche se si era già fatto conoscere a teatro). La sua fusione con il personaggio del giovane ribelle fu perfetta. Anche le peggiori recensioni del film non evitarono di lodare l’interpretazione del giovane attore. Courtenay rese credibile il personaggio, mostrandone il carattere irrequieto ed anarchico e la sua agognata ricerca di libertà, ma allo stesso tempo, il suo contrastante desiderio di normalità e di tranquillità.
In Gioventù, amore e rabbia, l’attenzione ai dettagli e la rappresentazione della misera vita del giovane ragazzo, danno un’immagine vivida ed un’aria convincente di realtà alla storia. Ci troviamo di fronte ad uno pseudo-documentario che ha però la capacità di mantenere un certo flusso cinematografico ed un emozionante carattere poetico. Tra i tanti film che pretendono di rappresentare la rabbia e le frustrazioni giovanili, questa pellicola di Richardson occupa sicuramente un posto di rilievo.
Scheda film |
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TITOLO ORIGINALE | The Loneliness of the Long Distance Runner | ||
PRODUZIONE | Regno Unito | ||
ANNO | 1962 | ||
DURATA | 104' | ||
COLORE | B/N | ||
AUDIO | Mono (Westrex Recording System) | ||
RAPPORTO | 1.66:1 | ||
GENERE | Drammatico | ||
REGIA | Tony Richardson | ||
INTERPRETI E PERSONAGGI |
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SOGGETTO | Alan Sillitoe | ||
SCENEGGIATURA |
Alan Sillitoe | ||
FOTOGRAFIA | Walter Lassally | ||
MONTAGGIO | Antony Gibbs | ||
MUSICHE | John Addison | ||
SCENOGRAFIA | Ralph W. Brinton e Ted Marshall | ||
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- Pubblicato Venerdì, 23 Settembre 2016 15:00
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Il maschio e la femmina (1966) di Jean-Luc Godard |
"Questo film potrebbe chiamarsi 'I figli di Marx e della Coca-Cola'. Chi ha orecchie per intendere intenda". Così recita uno dei numerosi cartelli che inframezzano con pensieri, frasi, titoli di giornali, aforismi e citazioni le sequenze di una delle pellicole fondamentali per comprendere il Godard degli anni sessanta e la direzione che il suo cinema (e quello di tutta la nouvelle vague) stava prendendo all'epoca.
Girando quasi senza sceneggiatura (ma ispirandosi ad alcuni racconti di Maupassant), il regista osserva come un entomologo il mondo che lo circonda e ne riproduce la quotidianità e la banalità. Non a caso il protagonista Paul, interpretato da un Léaud forse alla sua prima parte "adulta" dopo "I quattrocento colpi", lavora come sondaggista per cercare di tracciare un quadro dei giovani moderni (di cui egli stesso fa parte) e del loro rapporto con il sesso, l'amore, la politica e la società della Francia di quel periodo.
Il film si propone così di descrivere il mondo culturale, i miti e i sogni (Madeleine che vuol diventare cantante), il consumismo (il bowling, il cinema) e lo sfruttamento sociale della gioventù francese prima del '68. Il sottotitolo del film recita "15 fatti precisi", anche se poi la narrazione procede in maniera quasi dispersiva raccontandoci l'incontro e il corteggiamento di Paul nei confronti di Madeleine, molto più superficiale di lui (così come le sue due amiche: il film è leggermente misogino nel mettere a confronto l'impegno politico e la sensibilità dei ragazzi con la leggerezza e la spensieratezza delle ragazze: vedi per esempio l'intervista a "miss sorriso").
Fra riferimenti ai temi sociali e politici di quegli anni (prima su tutti la guerra in Vietnam) e osservazioni di costume (le canzonette, il cinema, la moda), la pellicola divaga in tutte le direzioni per arrestarsi bruscamente con una conclusione assurda e inaspettata, anticipata qua e là da situazioni e momenti "violenti" (la donna che spara a suo marito, l'uomo che si accoltella, il dimostrante che si dà fuoco fuori campo).
Anche i cartelli e le frasi che separano le diverse sequenze sono accompagnate dal suono di spari che potrebbero uscire da un film western. Se Madeleine è interpretata da una giovane cantante "yè-yè", ci sono piccole apparizioni anche per Brigitte Bardot e per Françoise Hardy. Non manca nemmeno un "film nel film", quello – quasi muto – che offre al cinefilo Léaud l'occasione per protestare contro il proiezionista per l'errato uso del mascherino.
Scheda film |
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TITOLO ORIGINALE | Masculin, féminin | ||
PRODUZIONE | Francia, Svezia | ||
ANNO | 1966 | ||
DURATA | 104' | ||
COLORE | B/N | ||
AUDIO | Mono | ||
RAPPORTO | 1.37:1 | ||
GENERE | Drammatico | ||
REGIA | Jean-Luc Godard | ||
INTERPRETI E PERSONAGGI |
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SOGGETTO | Guy de Maupassant (dai racconti La Femme de Paul e Le Signe) | ||
SCENEGGIATURA |
Jean-Luc Godard | ||
PRODUZIONE | Anouchka Films, Argos Films, Svensk Filmindustri | ||
FOTOGRAFIA | Willy Kurant | ||
MONTAGGIO | Agnès Guillemot | ||
MUSICHE | Jean-Jacques Debout | ||
PREMI | Festival di Berlino 1966: miglior attore (Jean-Pierre Léaud) | ||
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