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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 12:00
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100 ANNI CON FELLINI Roma (1972) |
Federico Fellini si è sempre considerato un uomo nato in viaggio, definizione che ha ribadito volentieri in svariate occasioni. Nato nel centro Italia, si è sempre sentito molto legato a quella che è stata la culla della sua carriera cinematografica, la seconda casa da cui non si allontanerà mai, nonché lo scenario perfetto per i suoi capolavori: Roma.
L’opera che meglio valorizza il binomio Fellini-Roma è appunto Roma (1972), film connotato da un’estetica al limite del barocco, nobile e al contempo grottesco nei contenuti. Fellini raccontò la città eterna come nessuno aveva mai fatto prima, filtrandone la rappresentazione attraverso il proprio modo di amare e temere Roma. Non mancò occasione di affrontare il tema della religiosità nel film, e Fellini lo fece con una scena memorabile, quella in cui nobili, vescovi e cardinali assistono a una sfilata di modelli per suore e preti, mentre in sottofondo la musica di Nino Rota commenta la sequenza con un tema ironico e quasi infantile. Il percorso artistico di Fellini è sempre stato improntato sulla presa di coscienza di sé, che lo portò a infondere la propria soggettività cinematografica in tutti i suoi lavori; in ogni luogo, palazzo e abitante romano che decideva di immortalare. Per il maestro romagnolo Roma fu prima il mondo degli artisti del varietà (Luci del varietà, 1950), poi monumentale e mostruosa (Lo sceicco bianco, 1952), infine un traguardo per chi volesse lasciare la provincia – metafora del nido materno – per passare all’età adulta e quindi all’indipendenza (I Vitelloni, 1953).
Se nei suoi lungometraggi Fellini raccontò di sé, della sua vita, dei suoi amori, delle sue passioni e delle sue paure professionali, Roma ne era lo sfondo costante, luogo per lui di crescita e cambiamento. Il punto più alto raggiunto dal cineasta è quello della raffigurazione della Roma bene, dei salotti borghesi, delle dive, dei locali notturni, delle feste esclusive e dei personaggi famosi; della bella vita romana che scoppia in pieno boom economico: di qui nacque La dolce vita (1960). La messa in scena di Fellini, il suo modo di esporre i fatti e i drammi dei personaggi, era del tutto nuova: il passaggio da un episodio all’altro avveniva attraverso degli stacchi netti senza dissolvenza, come davanti a dei quadri pittorici, accomunati dal tema della dolce vita romana.
Non si potrebbe spiegare il legame tra Fellini e Roma senza parlare di Cinecittà. In un’intervista rilasciata a “La Repubblica”, il regista disse: «Quando ero piccolo questa parola, “Cinecittà”, evocava l’idea di una dimensione che avrebbe fatto parte della mia vita». Fu infatti la Hollywood italiana lo scenario in cui Fellini mosse i suoi più grandi passi, e la capacità che il regista aveva di ricreare qualsiasi cosa all’interno di quei capannoni è ancora oggi inarrivabile. Il suo penultimo film, Intervista (1987), è proprio un’autobiografia in cui Fellini illustra il suo legame con la “città del cinema” e con gli addetti ai lavori, raccontando come grazie a quel luogo fosse riuscito ad amare ancora di più il cinema, sovrapponendo vita e arte come se alla fine fossero esattamente la stessa cosa. Il rapporto di Fellini con Roma era così forte che i tratti del suo cinema sono tutti racchiusi nella città, resa definitivamente eterna proprio dalle sue opere.
da: https://www.1977magazine.com
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Scheda |
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LINGUA ORIGINALE | Italiano | ||
PRODUZIONE | Italia, Francia | ||
ANNO | 1972 | ||
DURATA | 119' | ||
COLORE | Color (Technicolor) | ||
RAPPORTO | 1.85 : 1 | ||
GENERE | commedia, biografico | ||
REGIA | Federico Fellini |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | Federico Fellini, Bernardino Zapponi |
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PRODUTTORE | Turi Vasile Ultra Film, Les Productions Artistes Associés |
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SCENEGGIATURA | Federico Fellini, Bernardino Zapponi | ||
FOTOGRAFIA | Giuseppe Rotunno | ||
MONTAGGIO | Ruggero Mastroianni | ||
SCENOGRAFIA | Danilo Donati | ||
MUSICHE | Nino Rota | ||
EFFETTI SPECIALI | Adriano Pischiutta | ||
COSTUMI | Danilo Donati | ||
TRUCCO | Rino Carboni | ||
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 11:00
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ROAD MOVIE: IL CINEMA AMERICANO PER ECCELLENZA Easy Rider (1969) |
Era un torrido 14 luglio 1969 quando nelle sale americane uscì un film che a molti sembrò un’operazione ambiziosa ma senza speranza: una pellicola indipendente e per buona parte improvvisata, costata appena 400mila dollari, senza una trama vera e propria e realizzata da due attori poco conosciuti al grande pubblico. Nonostante le premesse e un’estate fra le più calde di sempre, i cinema di Los Angeles e di New York vennero presi d’assalto da intere legioni di giovani provenienti da tutto il paese, attirati soprattutto dal passaparola dei tanti gruppi della controcultura hippie. In meno di poche settimane quel film, Easy Rider, divenne un vero e proprio caso cinematografico, tanto che – dopo essere stato premiato a Cannes come miglior opera prima – l’anno dopo guadagnò perfino due nomination all’Oscar per la miglior sceneggiatura e per il miglior attore non protagonista (Jack Nicholson, all’epoca praticamente sconosciuto). Ancora oggi, per l’American Film Institute, il film di e con Dennis Hopper è all’ottantaquattresimo posto nella classifica dei migliori cento film statunitensi di tutti i tempi.
Non male per un’opera il cui intento era proprio quello di provocare e scandalizzare l’opinione pubblica statunitense, raccontando personaggi e vicende tutt’altro che familiari e consolanti per il cittadino americano medio. I due protagonisti, Wyatt “Capitan America” (Peter Fonda) e Billy (Dennis Hopper), già spacciatori di cocaina fra il Messico e gli Stati Uniti, arrivati in California decidono di destinare parte del guadagno all’acquisto di due motociclette nuove con l’intenzione di attraversare il paese per andare a vedere il Carnevale di New Orleans, noto anche come Mardi Gras. Sulla strada incontreranno hippy strafumati, bordelli, poliziotti brutali, cittadini rancorosi e un avvocaticchio figlio di papà (Jack Nicholson appunto) che aiuterà i due ad uscire da galera. Un viaggio tra due Americhe diverse e in conflitto che si diventerà una fuga da un sogno americano tradito e trasformato quasi in incubo. Fino ad un finale atroce e simbolicamente devastante.
Per comprendere al meglio la forza sovversiva dell’immaginario di Easy Rider dobbiamo però rileggere il contesto di quell’epoca. Siamo nel 1969 e gli Stati Uniti si trovano in uno dei periodi più bui della propria storia’, iniziato qualche anno prima con l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy: da una parte la guerra del Vietnam è arrivata alla massima escalation di violenza (proprio quell’anno la presenza americana raggiunse il picco storico di 550.000 soldati), dall’altra le tensioni interne esplodono in un cortocircuito che è sì razziale e sociale, ma anche e soprattutto generazionale.
L’industria cinematografica aveva già saputo intercettare un certo vento anticonformista e nel 1967 Mike Nichols con Il Laureato aveva già posto le basi per raccontare l’incomunicabilità fra giovani e adulti. Easy Rider fa un passo nella stessa direzione, ma come la passeggiata lunare di Neil Armstrong di quello stesso anno, è anche un grande balzo per una Hollywood ormai in crisi di idee e di talenti: tanto che da lì un poi si chiamerà appunto “New Hollywood”, definendo anche artisticamente un nuovo confine fra padri e figli ed aprendo la strada a una nuova generazione di autori. Tutto questo perché in quella disconnessione fra professori e studenti, fra classe dirigente e ribelli, fra realtà filtrata e realtà senza filtri, Easy Rider sceglie di raccontare una storia generazionale dal punto di vista dei giovani e non dell’establishment, infischiandosene delle conseguenze politiche e morali. Questo è anche il motivo principale del suo incredibile successo, tanto che molto tempo dopo, lo stesso George Lucas ammise che l’opera prima di Hopper “ha cambiato completamente l’idea per le corporation di che cosa fosse un film di successo, cioè che dovesse avere successo tra i giovani.” (...)
Curata dallo stesso Dennis Hopper, la soundtrack è un vero e proprio manifesto musicale di quegli anni, in cui si parte da classici come Born to be Wild degli Steppenwolf, si arriva alla splendida ballata dei The Byrds Wasn’t Born to Follow, fino a passare dal rock più duro dei The Jimi Hendrix Experience con If 6 was 9. Musiche che, come nel caso de Il laureato, assumono a tutti gli effetti una loro “anima”, legata e allo stesso tempo autonoma dalla pellicola. Più di tutti fu Quentin Tarantino negli anni ‘90 a fare la stessa cosa con le musiche di film come Le Iene e Pulp Fiction.
Più di ogni altra, la vera innovazione narrativa è però quel finale amarissimo con la bandiera a stelle e strisce che prende fuoco e che trasforma il film di Hopper in una vera e propria ballata triste per anime libere: quasi un canto funebre che seppellisce quel poco che rimaneva del sogno americano insieme alle speranze di un’intera generazione. Insolito però che da quelle stesse ceneri prenderà vita forse quella è la più grande stagione del cinema americano: perché dopo (e anche grazie) ad Easy Rider arriveranno Coppola, Altman, Scorsese e Cassavetes. Il viaggio per le strade di una nazione era appena iniziato.
da: http://www.anonimacinefili.it/
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Scheda |
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TITOLO ORIGINALE | Easy Rider | ||
LINGUA ORIGINALE | Inglese | ||
PRODUZIONE | Stati Uniti d'America | ||
ANNO | 1969 | ||
DURATA | 94' | ||
COLORE | |||
RAPPORTO | 1,85 : 1 | ||
GENERE | Drammatico, avventura | ||
REGIA | Dennis Hopper |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | Peter Fonda, Dennis Hopper, Terry Southern |
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PRODUTTORE | Peter Fonda |
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SCENEGGIATURA | Peter Fonda, Dennis Hopper, Terry Southern | ||
FOTOGRAFIA | László Kovács | ||
MONTAGGIO | Donn Cambern | ||
SCENOGRAFIA | Robert O'Neil | ||
MUSICHE | The Byrds, Hoyt Axton, Steppenwolf, Bob Dylan, Jimi Hendrix, John Keene, The Band | ||
EFFETTI SPECIALI | Steve Karkus | ||
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 10:00
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ROAD MOVIE: IL GENERE AMERICANO PER ECCELLENZA Punto zero (1971) |
"Non credevo assolutamente che Vanishing Point sarebbe sopravvissuto tutti questi anni – ha raccontato nel 2009 Serafian a un giornalista web – Certo, abbiamo lavorato duro sotto il sole cocente ma quel che davi al pubblico erano pochi baci e la nostra visione di ciò che stava succedendo… libertà, strade senza fine e lasciare che le carte cadessero dove potevano"
Pero' nei titoli di coda di Death Proof, Quentin Tarantino ringrazia Sarafian perché Vanishing Point è stato uno dei film che più lo hanno ispirato. Nel 1997 la band rock scozzese Primal Scream chiama il suo album Vanishing Point, in omaggio al film che, parola del leader Bobby Gillespie, adora per l'aria di paranoia vitale, per la velocità e per il senso di giustizia che ispira".
Infatti il contributo di questo cineasta di origini armene e in particolare di questo classico del cinema Usa on the road che gli dette celebrità mondiale, e che non manca di legami segreti sia con Walt Whitman di "Song of The Open road" che con George Lucas di American Graffiti, è stato gigantesco. Si capisce che Serafian fu per tutta la vita un grande amico e assistente di Robert Altman, e che ne sposò la sorella Helen Joan (morta due anni fa) da cui ha avuto 5 figli, tutti lavoratori del cinema.
Indispensabile opera (impura, imperfetta, senza sintesi e senza dialettica) per comprendere la 'scultura interiore' flagrante degli 'anni 70' – il decennio della revisione come gli anni 50 furono il decennio della ricostruzione, e gli anni 60 della rivoluzione. Una revisione fatale, estremista, senza compromessi dei rapporti tra romanticismo, individualismo e tecnologia rampante. Serafian e Punto zero sono l'anti-Berlinguer.
E fu dunque fondamentale, Vanishing Point, anche per capire cos'è un 'road movie', e cos'è all'interno di quel nuovo genere quel filone deviante chiamato trip film, più politico, lisergico e libertario, e perfino funesto e suicida, che indica nella deriva e nella fuga tattica, fino all'estasi, fino alla droga pesante più esiziale, la parola d'ordine più spiazzante e vitale, nonostante tutto, e nella paura collettiva per le sorti del mondo un sentimento più coriaceo e mondano dell'angoscia individuale e privata.
Quel che conta in un road movie (che non è né 'il film di viaggio', né la sua versione moderna, il 'film di corse sulla strada', da Il sorpasso a Cannonball a Rush) è una certa qualità di sguardo (come il noir era una certa qualità di atmosfera) che si condensa nell'uso di un punto di vista netto e insistito: quello fisso sul mondo che corre incontro all'automobile e alla cinepresa. Un mondo exploiding che è tutto da ricostruire. E che ci viene offerto in frammenti non facilmente collegabili. Non c'è più il puzzle ricomponibile. Il geografo non può più pensare all'Atlante, ma deve cominciare a mettersi di fronte a un Atlas, come lo avrebbe chiamato Warburg o Calvino, a una mappa di detriti (metropolitani e desertici) fatto di parti avulse, disomegenee, non comunicanti. Che possono farti impazzire.
Il road movie fa coincidere il movimento del film con il movimento nel film. Eppure un'opera come Punto zero (che è apparentemente una pellicola di viaggio e di 'corsa su strada') riuscì a cucire insieme movimento del film, movimento nel film e Movimento nella storia americana, tra vita e morte, tra vittoria entusiasmante in Vietnam – la guerra d'aggressione yankee fu fermata e Nixon destituito – e sconfitta nel paese (lo sgretolemanto delle conquiste sociali rooseveltiane continuò implacabile fino a Reagan). Ancora più in profondità fu l'affondo di questo capolavoro nelle viscere del mondo occidentale, rispetto ad altri magnifici road-movie più che perfetti, come Milestones di Robert Kramer, Two-Lane Blacktop di Monte Hellman o Alabama e Nel corso del tempo di Wim Wenders, film nei quali l'immagine-movimento e l'immagine tempo iniziano a coincidere e a sovrapporsi.
Vanishing Point raccontava la scommessa di Kowalski, un ex pilota professionista, ex poliziotto e veterano di guerra (Barry Newman) con il suo pusher: porterà da Denver la sua muscle-car, una Dodge Challanger 1970, a San Francisco in 15 ore. Siccome Newman supera tranquillamente in free-way le 10 miglia di tolleranza in più rispetto alla legge i poliziotti, stato dopo stato, cominciano a inseguirlo e lo perseguitano esagerandone la pericolosità fino al delirio, mentre il dj african-american cieco Mister Anima (Super Soul, l'attore Cleavor Little) fa un tifo radiofonico sfegatato per il ribelle, il trasgressore, il deviante, la vittima, il capro espiatorio, il drop out, il simbolo sacrificale di ciò che Legge odia, e non potrebbe. Non dovrebbe permettersi. Ancora Davide e Golia. Ma il finale sarà assai poco biblico.
Durante il viaggio non mancheranno incontri significativi: una motociclista tutta nuda come Ladu Godiva; un cacciatore di serpenti; una immancabile (all'epoca) comunità di hippies…Lo shock è che l'eroe non fa niente di eroico, anzi si dimentica proprio di fare cose eroiche, è una sorta di Lone Ranger moderno. Ma la sua protesi, l'automobile, romantica, dalle prestazioni tecniche notevoli, con il suo lunghissimo e aggressivo cofano, sì.
La simbiosi tra uomo e automobile (welcome to the machine) diventa totale in Punto Zero, erotica, magica, la macchina si fa desiderante come la soggettività dei ragazzi del movimento di contestazione globale che deve imporsi a tutto e a tutti, contro ogni conformismo e 'valore' ereditato, contro i legame di sangue, comunità, partito, contro ogni complicità etnica, sessuale, sociale e perfino politica.
La corsa è un coito e l'arrivo coincide sempre con l'orgasmo, con la morte o con entrambi. Vanishing Point, Zabriskie Point e Easy Rider sono tre esempi fuori schema, devianti, erotico-eretici di road movie. Lo scollamento uomo-macchina avverrà in seguito, con l'automobile che divorerà il guidatore, e prenderà il posto di comando risucchiando l'uomo (Christine di John Carpenter). "In quel film – disse Serafian a Turner Classic Movie – ho avuto proprio la possibilità di psicanalizzare la velocità".
Certo. Il road movie genuino e cristallino, non inquinato dalle pulsioni rivoluzionarie, abolirà, sostituendola con una continuità passeggero-macchina-macchina da presa-paesaggio quel che era una separazione drastica, che nel film di viaggio permetteva la modifica psicologica del personaggio, la sua crescita, tramite discesa nell'inconscio (da Ombre rosse a Lolita), e nel film di 'corsa sulle strade', la liberazione comportamentale, quasi reichiana, dalle convenzioni sociali. Qui siamo all'anelo mancante tra speed movie e road movie. (...)
Prima di Thelma e Louise, prima di Violent Cop e della saga Il bandito e la Madama con Burt Reynolds (un attore che Serafian adorava e con il quale ha lavorato in L'uomo che amò Gatta danzante), con Vanishing Point Richard Serafian aveva combattuto corpo a corpo contro l'ottusità poliziesca più furbetta e vigliacca, e vinto ai punti. Mai nessun film hollywoodiano, periodo rooseveltiano a parte, aveva avuto il coraggio di tradurre forze dell'ordine con 'impotenza disordinata e bruta' e di mettere con le spalle al muro mandanti e simpatizzanti degli squadroni fascistoidi che avevano eseguito, dal 1964 alla fuga da Saigon, l'ordine di ripulire scuole, università, fabbriche, moschee e ghetti da ogni 'anima bella' rintracciabile, da ogni pantera nera pericolosamente a caccia. E siccome il cinema è l'arma più potente, altro che terrorismo altro che moti di piazza altro che fucili imbracciati e roteanti, aver realizzato quell'opera è come aver vinto cento battaglie. Non se ne fanno più di film così. Non c'è Legge né sgherro che possano impedire all'uomo democratico americano di "conoscere l'universo stesso come una strada, come molte strade, come le strade delle anime vagabonde" (Walt Whitman).
Se qualcuno nato molto più tardi degli anni settanta cercherà di capire in meno di due ore cos'è stata la rivolta studentesca americana contro la guerra del Vietnam, il razzismo arrogante e l'autoritarismo dovrà riguardarsi Punzo Zero. Capirne il ritmo, la concentrazione, l'alterità totale. E magari confrontarlo con il suo antidoto, altrettanto geniale, Trains, Plains and Automobiles (1986) di John Hughes dove due yuppies (Steve Martin e John Candy) fanno il viaggio opposto, dalle libere strade infinite della libertà sfrenata verso la casa borghese embedded dei suburbi, dove li aspetta il tacchino del giorno del ringraziamento, che dovranno conquistare zigzagando pericoli e avventure, invece di bearsene.
da: www.sentieriselvaggi.it
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- Pubblicato Sabato, 21 Settembre 2019 09:00
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ROAD MOVIE: IL GENERE AMERICANO PER ECCELLENZA Thelma e Louise (1991) |
Per una generazione, quella degli anni ’90, jeans e maglietta, con i capelli scompigliati dal vento e un paio di Ray-Ban, Thelma & Louise è stato il manifesto dell’affrancamento femminile da un immaginario prettamente machista, che aveva fatto la voce da padrone per tutto il decennio precedente. Ma, probabilmente, non sono state unicamente le voci della rivoluzione e rivalsa tutta al femminile contenute nella sceneggiatura di Callie Khouri, l’unica ad aggiudicarsi una statuetta, nonostante le numerose nomination ricevute dal film, a convincere Ridley Scott a mettersi dietro la macchina da presa in un progetto dove, inizialmente, doveva comparire solo come produttore. Scott deve esser rimasto affascinato anche dalla possibilità di spingersi oltre le codifiche del genere, come, del resto, viene dichiarato, già a partire dai titoli di testa, da quel moto ascendente della macchina da presa, che sembra voler sabotare l’orizzontalità del paesaggio, rendendo chiara fin dal principio la volontà di descrivere la traiettoria on the road di un movimento a rischio, dove il Cinema diventa esperienza dell’attraversamento.
D'altronde il discorso sui generi che da tempo Ridley Scott continua a portare avanti è ormai più che cristallino. Le immagini e i corpi fuori controllo di The Counselor come opera di deterritorializzazione che smonta per eccesso il noir, o la magnifica “pre-storia” di Robin Hood, che devia dalla vocazione di prequel e, nel suo detour rispetto alla leggenda, si fa epica di una tensione erotica. O, ancora, Prometheus come luogo che nega la possibilità di un’origine e che, nell'affrancarsi, di nuovo, dallo status di prequel, diventa lo spazio dell’affermazione della perenne ri-formulabilità del Cinema stesso. Lo smembramento e una nuova ri-composizione del corpo-cinema, è questo il rituale, il duello perpetuo messo in atto da Ridley Scott. Come il fermo-immagine sul finale di Thelma & Louise, un volo verso il Grand Canyon che non sospende il viaggio di Geena Davis e Susan Sarandon a bordo della loro Thunderbird turchese del 1966, ma lo rende inarrestabile, per sempre.
We’re going to Mexico, continuano a dirsi le due protagoniste di Thelma & Louise.Oltre il confine. Perché, alla fine, di questo si tratta. Di un cinema che si fa atto affermativo della sua esistenza nel momento in cui aspira ad oltrepassare se stesso, a spostare ogni volta in avanti i suoi limiti e che, in quella continua tensione, propria della poetica scottiana, che procede lungo il conflitto nei corpi e dei corpi, diventa capace di allargarsi all'infinito. La corsa di Thelma e Louise, con il loro detour che diventa il viaggio stesso, la vacanza di un weekend deviata da un colpo di pistola in una fuga perenne, non è altro che l’immagine di un confine, di un limite da varcare.
Non si tratta solo del discorso portato avanti attraverso la scrittura di Callie Khouri, con Thelma e Louise, la casalinga schiacciata da un marito oppressivo e la cameriera di un diner, stanca dell’incompiutezza della sua relazione amorosa con Michael Madsen, che compiono un movimento di passaggio, continuamente ribadito dai dialoghi scambiati dalle due donne, verso la liberazione dalle catene che la vita vorrebbe metter loro. Quello che Ridley Scott mette in atto, ancora una volta in un gioco di luci e ombre, la luce calda e avvolgente degli esterni che illumina i corpi di Thelma e Louise e la pioggia, venuta chissà da dove, o gli interni bui dove è perennemente relegato il genere maschile, è una vera e propria trasfigurazione o, meglio, re-figurazione del road movie. Il recupero di quell'immaginario che ha fondato il mito, la Route 66, il Grand Canyon, la Ford Thunderbird, diventa un’immagine che non si esaurisce in se stessa e che, nella moltiplicazione del suo senso, innesca la ridefinizione del mito stesso. Non a caso, allora, la traiettoria scelta da Thelma e Louise per compiere la loro fuga è una linea tortuosa e aperta, una sfida alla via codificata (quella che passa per il Texas), perché i confini del Cinema, come Ridley Scott non si è mai stancato di ribadire, non sono altro che immagini mobili.
da: https://www.sentieriselvaggi.it/
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Scheda |
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TITOLO ORIGINALE | Thelma & Louise | ||
LINGUA ORIGINALE | Inglese | ||
PRODUZIONE | Stati Uniti d'America | ||
ANNO | 1991 | ||
DURATA | 124' | ||
COLORE | Color | ||
RAPPORTO | 2.35 : 1 | ||
GENERE | Drammatico, avventura | ||
REGIA | Ridley Scott |
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INTERPRETI E PERSONAGGI |
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DOPPIATORI ITALIANI |
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SOGGETTO | Callie Khouri | ||
SCENEGGIATURA | Callie Khouri | ||
FOTOGRAFIA | Adrian Biddle | ||
MONTAGGIO | Thom Noble | ||
SCENOGRAFIA | Norris Spencer | ||
MUSICHE | Hans Zimmer | ||
EFFETTI SPECIALI | Stan Parks | ||
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