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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Sabato, 08 Settembre 2018 23:00
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«LIBERI DA DENTRO» - BIBLIOTECA RIVA DEL GARDA Mery per sempre (1989) |
Al riformatorio Malaspina di Palermo il degrado e la disperazione sono le uniche realtà con cui ci si confronta, e ci si scontra, quotidianamente. Solo contro tutti, il professor Marco Terzi cercherà di conquistare la fiducia di un gruppo di ragazzi dal passato tragico e turbolento e d’infondere in loro un barlume di speranza e d’umanità.
Basato sull'omonimo romanzo di Aurelio Grimaldi, Mery per sempre di Marco Risi offre uno spaccato di vita all'interno di un’istituzione carceraria minorile e punta il dito accusatorio su una società perennemente assente e inadeguata ad espletare il proprio ruolo (ri)educativo e formativo. Imbrigliati in una subcultura delinquenziale di stampo mafioso, i giovani reclusi sono al tempo stesso fautori e vittime di un’ineluttabile spirale omertosa che li avvolge e li travolge verso l’abisso morale, etico ed esistenziale. Complici di tale brutalità e squallore sono le altrettanto criminose ed a volte ingiustificate imposizioni comportamentali e gerarchiche all'interno di un riformatorio che mira alla completa privazione di ogni forma di libertà e solidarietà tra i detenuti.
Voce fuori dal coro, il professor Marco Terzi incarna quel grido d’indignazione verso il muro di gomma che permea l’intera struttura carceraria, ma non solo, e s’impegna ad offrire uno spiraglio di riscatto per mezzo della più sincera e sentita comprensione. Avvalendosi di ambientazioni autentiche e di un taglio registico di matrice neorealista, Risi sapientemente alterna attori professionisti e non al mero scopo di far trasparire quell'ineffabile codice sull'omertà che tanto condiziona i pensieri e le azioni dei giovani protagonisti.
Allo stesso modo, il cineasta milanese non disdegna registri e stilemi tipici del melodramma nel delineare e sottolineare la drammaticità e la tensione emotiva che scaturiscono da alcuni aspetti di vita vissuta, tra i quali spiccano la morte di un giovane ex carcerato durante una rapina e la toccante odissea di (auto)accettazione e (re)inserimento in società della giovane transessuale Mery.
Lo stesso finale denso di significato e foriero di una qualche speranza fa intravvedere una tenue consapevolezza in un destino migliore e una riconsiderazione delle regole etiche e morali all'interno del riformatorio. Tuttavia, ciò che attende questi ragazzi al di fuori delle mura carcerarie è assai più duro e spietato della vita da reclusi. L’incontro scontro con un mondo fatto di povertà e silenzi è difficile da debellare e ci sarà sempre un cliente fuori e in attesa di Mery.
di Giulio Giusti
Da:http://www.mediacritica.it
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Scheda |
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PRODUZIONE | Italia | ||
ANNO | 1989 | ||
DURATA | 102' | ||
GENERE | Drammatico | ||
REGIA | Marco Risi | ||
INTERPRETI E PERSONAGGI |
Michele Placido: Marco Terzi Claudio Amendola: Pietro Giancona Francesco Benigno: Natale Sperandeo Alessandra Di Sanzo: Mario "Mery" Libassi Tony Sperandeo: Turris, guardia carceraria Giovanni Alamia: Marra, guardia carceraria Roberto Mariano: Antonio Patanè Maurizio Prollo: Claudio Catalano Luigi Maria Burruano: Franco D'Annino "il Cliente" Filippo Genzardi: Matteo Mondello Alfredo Li Bassi: Carmelo Vella Salvatore Termini: Giovanni Trapani, "King Kong" Andrea De Luca: Alessandro, ragazzo carcerato Gianluca Favilla: Direttore del riformatorio Aurora Quattrocchi: Madre di Mery Marco Crisafulli: Davide Varelli Carlo Berretta: Salvatore Sperandeo Pippo Augusta: Padre di Mery |
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SOGGETTO | Aurelio Grimaldi | ||
SCENEGGIATURA | Aurelio Grimaldi, Sandro Petraglia, Stefano Rulli | ||
FOTOGRAFIA | Mauro Marchetti | ||
MONTAGGIO | Claudio Di Mauro | ||
MUSICHE | Giancarlo Bigazzi | ||
COSTUMI | Roberta Guidi Di Bagno | ||
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- Pubblicato Sabato, 08 Settembre 2018 22:00
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«LIBERI DA DENTRO» - BIBLIOTECA RIVA DEL GARDA Cesare deve morire (2012) |
Roma, carcere di Rebibbia. I detenuti di massima sicurezza recitano Shakespeare: all'interno del carcere, infatti, viene messo in scena un particolare allestimento del 'Giulio Cesare' in cui sentimenti e personaggi vivranno sulla scena con gli attori e nelle celle con i detenuti.
"La coppia di registi pisani, è stato notato, pareva adagiata da decenni, su un cinema piuttosto accademico, mentre 'Cesare deve morire' (...) è indubbiamente uno dei loro lavori più sperimentali e curiosi. I due fratelli ultraottantenni si sono imbarcati in un film piccolo e agile. Non hanno solo ripreso le prove e la messa in scena di un 'Giulio Cesare' di Shakespeare con i detenuti di Rebibbia, ma hanno contaminato realtà e finzione, rielaborando le reazioni degli «attori» davanti all'arte, sfruttando l'energia e il transfert di queste vite nel dramma. Il successo di critica (italiana) e la vittoria a Berlino ci dicono forse un paio di cose, sul cinema italiano e non solo.
La prima riguarda la possibilità e la necessità di un cinema «leggero». I Taviani hanno intuito che una delle poche vie praticabili, oggi in Italia, sono le produzioni poco ingombranti, che permettano un confronto con la vita senza subire i contraccolpi di una realtà produttiva sempre più in crisi. (...) Che, nel film dei Taviani, le battute di Shakespeare in bocca a condannati per associazione mafiosa o spaccio suonino credibili, ci conferma che le tragedie moderne sembrano stare di casa più tra sottoproletarie marginali che in ambienti piccolo o alto-borghesi (...). Dopo tutto, in un altro carcere, a Volterra, un grande teatrante visionario come Armando Punzo crea da oltre vent'anni spettacoli belli e importanti mettendo in scena proprio questo dualismo. Una realtà che contraddice Aristotele quando sosteneva che la tragedia, diversamente dalla commedia, deve raccontare persone 'migliori di noi'."
(Emiliano Morreale, 'Venerdì di Repubblica', 2 marzo 2012)
"I Taviani e il teatro di Shakespeare. Trasformato in cinema - in un grande cinema - con la trovata geniale di far rappresentare uno dei suoi drammi più celebri, il 'Giulio Cesare', da detenuti di un carcere romano, quello di Rebibbia.
Si comincia a colori. Con la ricerca fra i detenuti di quelli che potrebbero recitare in uno spettacolo che dovrà svolgersi tra le mura del carcere. Poi, in uno splendido bianco e nero esaltato dal digitale, inizia il dramma. Con i suoi interpreti che, scortati, lasciano le loro celle per partecipare alle prime prove in un palcoscenico improvvisato: le parti imparate a memoria, le battute dei primi atti, con un'altra splendida trovata, quella di lasciare che i singoli 'attori' si esprimano nei loro dialetti d'origine, in maggioranza meridionali, non solo non sminuendo quel testo quasi sacro ma, anzi, dotandolo di una vitalità e di sapori di cronaca dal vero di cui doveva far sfoggio quasi soltanto quando si recitava al Globe Theatre nell'inglese del Seicento.
Allo snodarsi di fronte a noi della vicenda raccontata da Shakespeare, Paolo e Vittorio Taviani hanno qua e là accompagnato l'enunciato di piccoli casi privati di questo o quel detenuto coronati, a un certo momento, dalla constatazione che alcuni di loro fanno sulla contemporaneità di situazioni, per qualcuno anche personali, incontrate in un testo pur distante secoli da loro: quasi a testimoniare dell'eternità dell'arte. Si segue con il fiato sospeso. Certo, grazie a Shakespeare, ma anche per quella interpretazione diretta, anzi, addirittura nuda che, nonostante queste o forse proprio per questo, ad ogni svolta, ad ogni battuta è di una intensità sempre lacerante. Specie quando, per rappresentarci il coro dei Romani prima e dopo l'uccisione di Cesare, non si muovono masse in scena, ma si fanno ascoltare le invettive e le grida di altri detenuti affacciati numerosi da finestre con le sbarre. (...) L'ultimo 'Giulio Cesare' che ho visto al cinema è stato quello di Mankiewicz, nel '53, con Marlon Brando. Da oggi ricorderò con altrettanta ammirazione quello dei fratelli Taviani, con Antonio Frasca."
(Gian Luigi Rondi, 'Il Tempo Roma', 2 marzo 2012)
"Dopo i trionfi berlinesi (Orso d'oro, meritatissimo) arriva per 'Cesare deve morire' il momento della verità: l'incontro con il pubblico. La palla passa a voi, cari spettatori: abbiate coraggio, non fidatevi dei luoghi comuni e dei cattivi consiglieri. Vi sussurreranno: Shakespeare, girato in carcere, in bianco e nero, sai che palle! Niente di più falso!!! Innanzi tutto la durata del film (76 minuti compresi i titoli di coda, poco più di un'ora) è già garanzia di capolavoro. Inoltre, ai fratelli Taviani riesce un miracolo calare i versi del Giulio Cesare nella quotidianità dei reclusi di Rebibbia, come fossero i loro pensieri, il loro inconscio, la loro vita."
(Alberto Crespi, 'L'Unità', 2 marzo 2012)
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Scheda |
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PRODUZIONE | Italia | ||
ANNO | 2012 | ||
DURATA | 76' | ||
COLORE | B/N, Colore | ||
RAPPORTO | 1:1,85 | ||
GENERE | Drammatico, documentario | ||
REGIA | Paolo e Vittorio Taviani | ||
SOGGETTO | Giulio Cesare di William Shakespeare | ||
INTERPRETI E PERSONAGGI |
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SCENEGGIATURA | Paolo e Vittorio Taviani in collaborazione con Fabio Cavalli | ||
CASA DI PRODUZIONE | Kaos Cinematografica, in collaborazione con Stemal Entertainment, Le Talee, La ribalta - Centro Studi Enrico Maria Salerno, Rai Cinema | ||
FOTOGRAFIA | Simone Zampagni | ||
MONTAGGIO | Roberto Perpignani | ||
MUSICHE | Giuliano Taviani, Carmelo Travia | ||
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- Pubblicato Sabato, 08 Settembre 2018 21:00
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«LIBERI DA DENTRO» - BIBLIOTECA RIVA DEL GARDA Il più grande sogno (2016) |
Bella (e vera) storia di riscatto dalla periferia romana: l'esordio di Michele Vannucci, con un ottimo Alessandro Borghi e un sorprendente Mirko Frezza.
La vicenda di Mirko, 40 anni, e una vita di strada alle spalle, era stata già al centro del cortometraggio d’esordio di Michele Vannucci, intitolato non senza un filo d’ironia Una storia normale. La normalità s’intende di chi è nato in periferia e ha vissuto – per sopravvivere – fregandosene delle regole. La galera, la marginalità, persino la morte, messe in conto. L’abisso non per incidente, ma come presupposto. E il riscatto un miraggio.
Il più grande sogno è il prolungamento di quella storia breve (corta per durata e per destino) e insieme il suo coronamento. E’ il cinema che plasma la vita secondo i suoi desiderata, è la vita che plasma il cinema secondo le sue leggi. Una docufiction dove il dato grezzo dell’esistenza e il tornio del linguaggio s’intrecciano continuamente, profondamente, senza possibilità di sbrogliarli.
Mirko è la persona e il personaggio, il protagonista e la storia. La sua redenzione è un sogno di borgata che trova espressione in uno sguardo (ri)pulito sulla periferia romana. La luce di Matteo Vieille, la musica di Teo Tehardo, le scenografie di Lupo Marziale, se non producono un camuffamento della realtà (un imborghesimento direbbe qualcuno), segnalano comunque uno scarto significativo, un distanziamento volontario non dallo squallore di periferia ma dalla sua retorica.
Vannucci, come il coetaneo Giovannesi, si riconnette alla lezione dei Caligari (da cui prende a prestito l’ottimo Alessandro Borghi) e dei Pasolini, cercando cuore e bellezza ai margini senza ancora la purezza del primo e la consapevolezza del secondo. Affidandosi con una fiducia forse esagerata se pure al momento ben riposta sui palindromi della realtà, su quelli come Mirko che hanno già un film per esistenza (e viceversa), che sono santi e peccatori, pittori e tavolozza. Un cammino appena iniziato che per ora è un riflesso, una risposta al cammino di qualcun altro. Perché senza Mirko non ci sarebbe Vannucci però non è ancora vero il contrario.
Teo Zampa (cinematografo.it Fondazione Ente dello Spettacolo)
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Scheda |
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PRODUZIONE | Italia | ||
ANNO | 2016 | ||
DURATA | 97' | ||
COLORE | Colore | ||
RAPPORTO | 2,35:1 | ||
GENERE | Drammatico | ||
REGIA | Michele Vannucci | ||
INTERPRETI E PERSONAGGI |
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CASA DI PRODUZIONE | Kino Produzioni | ||
SCENEGGIATURA | Michele Vannucci, Anit Otto | ||
FOTOGRAFIA | Matteo Vieille | ||
MONTAGGIO | Sara Zavarise | ||
MUSICHE | Theo Teardi | ||
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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Sabato, 08 Settembre 2018 20:00
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LA STORIA D'ITALIA IN PELLICOLA 1860 (1934) |
Quando Alessandro Blasetti affronta l’avventura di 1860 ha solo 32 anni (è nato a Roma il 3 luglio 1900) ma è già il cavallo di razza del cinema fascista.
(...) L’idea di rievocare la spedizione dei Mille nasce da Emilio Cecchi, letterato illustre e in quel momento direttore artistico della Cines, che nel 1932 (anno di celebrazioni, ricorrono 50 anni dalla morte di Garibaldi) commissiona un «soggetto garibaldino» a Gino Mazzucchi, scrittore e poeta che collaborerà anche a O la borsa o la vita di Carlo Ludovico Bragaglia (1932) e a Treno popolare di Raffaello Matarazzo (1933).
Dopo varie stesure entra nel progetto Blasetti, che su input di Cecchi mescola il soggetto di Mazzucchi con le Noterelle d’uno dei Mille di Giuseppe Cesare Abba. Le riprese si svolgono tra la fine del 1932 e i primi giorni del 1933, anche se il film uscirà solo nel marzo del 1934. (...)
Il risultato è un film breve, apparentemente molto semplice, di cui tutti i critici – dagli anni Trenta a oggi – sottolineano l’approccio antiretorico. In realtà si tratta di un’opera profondamente stratificata, molto «artefatta» e consapevole, dove le istanze di attualizzazione fascista del Risorgimento sono al tempo stesso soddisfatte e abilmente bypassate; e dove Blasetti opera sostanzialmente una rilettura dal basso dell’impresa garibaldina, come epopea popolare e mito fondante dell’unità (anche linguistica) italiana.
Scrive Carlo Lizzani nella sua Storia del cinema italiano: «Il fatto che nel film Garibaldi appaia soltanto di sfuggita, e che il filo conduttore del racconto sia il modesto agire di questo montanaro e della sua giovane sposa, sembra sottolineare un’intenzione polemica che, se ci fu, in Blasetti, fu sicuramente mediata e fusa in una spontanea e sincera interpretazione popolaresca e antiretorica del nostro Risorgimento» (Lizzani, pp. 55-56). La polemica, se c’è, è tutta rivolta al «prima», all’Italia ancora divisa che Garibaldi riuscirà a unificare – e quindi all’Italia pre-fascista. La scelta di non far vedere quasi mai Garibaldi è fortemente mitopoietica, nel senso di una sapiente costruzione del mito che crea un parallelo fra lui e Mussolini proprio rifuggendo dall’iconografia garibaldina, così nota e fissa nella memoria di tutti gli italiani.
La trama non ha (quasi) nulla di storicamente reale: Blasetti inventa una Sicilia fuori dal tempo, volutamente arcaica, dove sembra che tutti attendano Garibaldi per liberarsi dal giogo dei Borboni. La didascalia iniziale appare sull’immagine di un paesaggio che, grazie a un sapiente carrello all’indietro, si rivela visto dall’interno di una cella. Il testo dice: «La Sicilia era ancora sotto il dominio borbonico che opponeva, al crescente odio del popolo, reggimenti di mercenari stranieri. La rivolta di Palermo era soffocata nel sangue, ma le distruzioni e le stragi non facevano che accrescere l’accorrere dei ‘picciotti’.
Le bande ribelli si annidavano sui monti, in attesa del liberatore GIUSEPPE GARIBALDI». Si vedono immagini di una forca, i soldati borbonici parlano esclusivamente tedesco (la prima parola che si sente nel film è un ordine in tedesco, «Feuer!»: fuoco!): quello che Blasetti mette in scena è un Paese occupato in attesa di un Messia.
Quel Messia è Garibaldi, ma la sua invisibilità permette a qualunque spettatore degli anni Trenta di pensare liberamente al duce e di «traslare» la Sicilia dell’Ottocento nell’Italia pre-fascista del primo Novecento. I Mille si vedono solo nella spettacolare scena della battaglia di Calatafimi, che chiude il film. In precedenza tutta la trama si muove su due livelli: il viaggio del contadino Carmineddu, che dalla Sicilia raggiunge Garibaldi a Quarto per comunicargli l’unanime attesa del popolo siciliano; e l’attesa dello sbarco in Sicilia, dove il popolo è pronto a sollevarsi. Nel corso della battaglia di Calatafimi, girata magnificamente, Blasetti ha però un’idea folgorante: anziché mostrare Garibaldi realizza una sua lunga soggettiva, un carrello in cui la macchina da presa si identifica con gli occhi del comandante e ridà forza ai combattenti ormai esausti. È quello il momento in cui «si fa l’Italia o si muore», e l’occhio del cinema diventa l’occhio del capo che infonde coraggio ai suoi uomini. (...) | ||
da: Storia d'Italia in 15 Film di Alberto Crespi (Editori Laterza 2018) |
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Scheda |
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PRODUZIONE | Italia | ||
ANNO | 1934 | ||
DURATA | 80' | ||
COLORE | B/N | ||
RAPPORTO | 1,37:1 | ||
GENERE | Drammatico, storico | ||
REGIA | Alessandro Blasetti | ||
INTERPRETI E PERSONAGGI |
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SOGGETTO | da un racconto di Gino Mazzucchi | ||
CASA DI PRODUZIONE | Cines | ||
SCENEGGIATURA | Alessandro Blasetti, Gino Mazzucchi, Emilio Cecchi | ||
FOTOGRAFIA | Anchise Brizzi, Giulio De Luca | ||
MONTAGGIO | Alessandro Blasetti, Giacinto Solito, Ignazio Ferronetti | ||
MUSICHE | Nino Medin | ||
SCENOGRAFIA | Vittorio Cafiero, Angelo Canevari | ||
COSTUMI | Vittorio Nino Novarese | ||
TRUCCO | Franz Sala | ||
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