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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Mercoledì, 21 Ottobre 2020 19:00
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LA COMMEDIA DEMENZIALE DI MEL BROOKS Mezzogiorno e mezzo di fuoco (USA 1974) |
Colorado, 1874. Rock Ridge piange la morte violenta dello sceriffo, mentre il malvagio governatore Hedley trama la più atroce delle beffe per quella operosa comunità di W.A.S.P. tutti di un pezzo: la nomina di uno sceriffo di colore. A dispetto del colore della pelle che gli attira immeritata ostilità, il prode Bart riuscirà a conquistarsi la fiducia e l'ammirazione dei concittadini riportando la legge nel piccolo paesino. Il tutto grazie all'aiuto di Waco Kid, un ex pistolero dal cuore tenero e dal grilletto isterico.
NOTE
- PER LA PRIMA EDIZIONE VEDI SEGNALAZIONI CINEMATOGRAFICHE VOL. 78.
- COREOGRAFIA: ALAN JOHNSON.
- LUNGHEZZA: 8,336 PIEDI.
- CANDIDATO ALL'OSCAR 1975 PER: MIGLIOR ATTRICE PROTAGONISTA (MADELINE KAHN), MONTAGGIO E CANZONE ORIGINALE ("BLAZING SADDLES").
CRITICA
"Si tratta di un western caricaturale e buffonesco, dalle mille trovate, ma non del tutto originale e non perfettamente calibrato. La mancanza di originalità è forse voluta poiché innumerevoli sono le citazioni di film precedenti sino al punto che per gli amatori lo spettacolo può servire da test commemorativo. La mancanza di equilibrio, viceversa, è di danno sotto ogni punto di vista. Il passaggio continuo da buone trovate a sequenze tirate avanti alla buona fa calare di molto l'interesse di uno spettacolo ove certi arguti sottintesi e certe saporite allusioni sfuggono per il farsesco tono di scene che precedono e che seguono. Gli stessi temi di fondo, sui quali fa spicco l'antirazzismo, sono gravemente offuscati da dialoghi assai crudi e licenziosi che abbondano di allusioni salaci e di espressioni molto volgari. Un tale miscuglio di intelligenza e di banalità è davvero deplorevole." ('Segnalazioni cinematografiche', vol.78, 1975)
"Il ritorno di questo film, gradito come esempio di una comicità tipicamente americana (da 'Hellzapoppin' a 'Cat Ballou') è, nonostante la relativa vicinanza della prima edizione, molto interessante per una più approfondita conoscenza di Mel Brooks (qui anche come interprete di due personaggi diversissimi: il capo indiano e il governatore pazzo, libidinoso e del tutto incapace) del quale, tra l'altro, è recentemente riapparso anche il primo film: 'Per favore non toccate le vecchiette'. Mel Brooks si dimostra stravagante, dissacratore, nemico delle regole che pur conosce a fondo (il film è colmo di citazioni d'altre opere cinematografiche e di personaggi o di 'formule usuali', il tutto allegramente trasformato in burletta). La labilità del presupposto narrativo e il capriccioso passare da una trovata ad un'altra, possono dare l'impressione di disordine e di mancanza di idee di fondo. I temi, invece, ci sono ed emergono soprattutto da alcuni personaggi chiave (il famoso pistolero in disarmo, sottilissimamente interpretato da Gene Wilder; lo sceriffo negro; la Lilli von Shtupp che fa la caricatura di Marlène Dietrich) o da alcune scene emblematiche (la banda degli assalitori, composta da Arabi, da motociclisti teppisti, da nazisti, e così via; gli operai della ferrovia, negri o cinesi; la popolazione del villaggio, eccetera). Per quanto questa riedizione disti pochi anni dalla prima (...), le volgarità di alcune battute o la meschinità di talune situazioni appaiono meno urtanti che nel passato e si ravvisano più facilmente nel loro intento di mettere alla berlina certi modi di vivere o di fare del cinema." ('Segnalazioni cinematografiche', vol. 89, 1980)
da: Cinematografo.it Fondazione Ente dello spettacolo
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Der wilde wilde Westen Sillas de montar calientes
Cleavon Little - Bart,
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- Categoria: Cinema
- Pubblicato Mercoledì, 21 Ottobre 2020 18:00
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LA COMMEDIA DEMENZIALE DI MEL BROOKS L'ultima follia di Mel Brooks (USA 2003) |
In originale s’intitola Silent Movie, ovvero film muto, ma L’ultima follia di Mel Brooks non è un film muto. Anzi, è perfino nel Guinness dei primati per il film sonoro con il minor numero di parole: una. Nella gag forse più celebre del film, infatti il celebre mimo Marcel Marceau dice la prima e unica parola della sua carriera: “NO!”.
Ma lo sappiamo che dei paradossi Mel Brooks ha fatto un’arte e infatti nella sua parodia dei film muti il regista utilizza anche la musica come una gag, quando sulla didascalia di New York l’orchestra suona San Francisco per poi interrompersi e attaccare I’ll Take Manhattan. E paradossale è anche la trama del film, satira del mondo di Hollywood che tra anni Venti e anni Settanta forse non è cambiato molto: il protagonista è lo stesso Brooks che, assieme a due improbabili soci (Marty Feldman e Dom DeLuise) cerca di convincere gli studios a produrre il più grande film muto mai fatto dalla fine del muto. E per riuscirci e impedire agli studios di fallire, deve convincere anche le più grandi star dell’epoca (da Paul Newman a Burt Reynolds, da James Caan a Liza Minnelli fino ad Anne Bancroft) ad accettare un ruolo.
Una raccolta di gag, come molti dei film di Brooks e come moltissimi dei lungometraggi comici del muto, in cui la costruzione visiva dell’umorismo è anche un modo per riflettere sul mondo, in questo caso meta-linguisticamente per lanciare qualche frecciata all’industria del cinema, al suo timore di rinnovarsi − anche se bisogna guardarsi alle spalle − e alla sua feroce avidità; una sorta di Cantando sotto la pioggia al contrario, in cui si immagina cosa potrebbe succedere allo star system e al cinema se il sonoro si spegnesse, se a contare fossero di nuovo solo i volti e i corpi. Non rinuncia alle sue celeberrime intemperanze vocali Mel Brooks, ma la sua ultima follia è un tripudio di circa un’ora e mezza di gag intese in senso classico, di corse, inseguimenti, scivoloni, capitomboli e torte in faccia, di precisione cronometrica nella costruzione del movimento degli attori e del montaggio, di utilizzo inventivo e buffo di codici e schemi consolidati, come a ripercorre e omaggiare l’epopea della comica finale, da Roach a Sennett, da Arbuckle ai mostri sacri Keaton e Chaplin. Una sorta di piccolo saggio sul suono e la sua assenza come veicolo di risata, un salto indietro che sembra anche anticipare le tendenze revisioniste del futuro (su tutte il The Artist di Hazanavicius).
da: mediacritica.it
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- Pubblicato Mercoledì, 21 Ottobre 2020 17:00
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LA LEGGEREZZA DI ERNST LUBITSCH Mancia competente (USA 1932) |
Venezia. In un lussuoso hotel, dove è stato da poco commesso un furto ai danni di un cliente, Gaston Monescu (Herbert Marshall) e Lily (Miriam Hopkins), fanno conoscenza nel corso di una cena galante, dismettendo le vesti di barone e contessa, rivelandosi, derubandosi a vicenda, entrambi abili ladri. Certamente fatti l’uno per l’altra, i due, ormai coppia fissa tanto nella vita che nella “professione”, organizzano il colpo decisivo, quello che potrà garantirgli la definitiva sistemazione, recarsi a Parigi ed appropriarsi delle ingenti sostanze dell’affascinante vedova Mariette Colet (Kay Francis), proprietaria di una fabbrica di profumi…
Mancia competente, poco indovinato titolo italiano rispetto all’originale Trouble In Paradise (“problema in paradiso”), può considerarsi il vero e proprio archetipo della sophisticated comedy e certamente in tal genere tra le opere più riuscite del regista berlinese Ernst Lubitsch, con una sceneggiatura esemplare (Samson Raphaelson, dalla commedia The Honest Finder di Laszlo Aladar), che ancora oggi sfida il tempo: dialoghi serrati, estremamente brillanti, allusioni sessuali non poi tanto sottointese, ma con i “sani limiti” del buon gusto a dargli sapida sostanza, senza alcuna imposizione esterna, considerando che il “Codice Hays” , per quanto già approvato, avrà definitiva applicazione due anni più tardi; il celebre “tocco”, marchio di fabbrica dell’autore rende poi estremamente gradevole la visualizzazione, grazie ad un’ottima direzione degli attori, tutti perfettamente in parte nelle loro caratterizzazioni, Marshall in testa, con una velocità della macchina da presa nel riprenderne le varie entrate ed uscite, tra il vaudeville e l’ operetta viennese, che sembra anticipare il loro movimento, connotando il tutto come una sostenuta partitura musicale, visto che, al riguardo, la colonna sonora (Frank Harling) scandisce più o meno ogni scena, dai titoli di testa a quelli di coda.
Se a risaltare è l’estrema cura dell’ambientazione, quasi tutta in interni, con grande rilievo dato all’elegante arredamento e ai singoli oggetti, che si rivelano funzionali alla narrazione (lo scorrere del tempo sottolineato dalle inquadrature degli orologi, gli specchi, il letto e le ombre che si stagliano su di esso a metaforizzare il desiderio represso), non da meno è la sagacia di Lubitsch, mista a malizia, mitigata da una sottile, beffarda, ironia, nel rappresentare l’agiato “paradiso” della nobiltà europea, esattamente come gli spettatori del tempo immaginavano che fosse, lusso e frivolezze, sesso e denaro, ma anche nella sua illusorietà, giocando sulla specularità del contrasto vero/falso: Gaston e Lily, gli intrusi, il “problema”, mantengono sempre la loro identità pur fingendo di essere ciò che non sono, mentre i componenti originari fingono di essere se stessi, ciò che il loro mondo richiede, ma si rivelano essere altro, proprio in virtù di tale intromissione. Unica soluzione possibile, resistendo dall’ addentare la mela, tornare ognuno nel proprio Eden, dove dar libero sfogo alla naturalità della propria essenza, ponendo fine al gioco del rimpiattino tra la realtà dell’ immaginazione e l’immaginazione della realtà.
da: mediacritica.it
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- Pubblicato Mercoledì, 21 Ottobre 2020 16:00
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LA LEGGEREZZA DI ERNST LUBITSCH Partita a quattro (USA 1933) |
Indecisa fra il commediografo spiantato Tom (Fredric March) e il pittore fallito George (Gary Cooper), la disinibita Gilda (Miriam Hopkins) propone ai due una convivenza priva di rapporti sessuali. Gli uomini ottengono finalmente l'agognato successo professionale, ma il patto tra i tre non regge. Gilda decide quindi di sposare il suo capo, l'imprenditore Plunkett (Edward Everett Horton), ma George e Tom non sono disposti a lasciarsi sfuggire la ragazza.
Adattamento di un testo teatrale di Noël Coward, l'ultimo film girato da Lubitsch prima dell'entrata in vigore del Codice Hays. Un film audace, sia per il tema trattato, sia per come sfrutta abilmente tutte le potenzialità del mezzo cinematografico: parte come un film muto in cui la narrazione è cadenzata dagli sguardi, valorizza poi la brillantezza dei dialoghi e infine ottimizza il campionario di immagini allusive e di non detti pregni di significato drammaturgico (come la battuta conclusiva, intuibile ma negata). Lubitsch non si erige mai a giudice, ma si limita a mostrare con la consueta sagacia questi personaggi emotivamente insicuri e a tratti infantili, ma sinceri, imperfetti e pieni di vita, disposti a volersi bene anche sfidando gli standard morali dell'epoca. Il regista, quindi, da spirito libero e anticonvenzionale quale è, tratteggia i tre protagonisti con affetto, mentre riserva le stoccate più sferzanti alla borghesia e ai suoi discutibili codici etici, perfettamente incarnati dall'esoso Max Plunkett. Brillante prova di tutto il cast, con una menzione speciale per l'ottimo Horton.
da: longtake.it
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